Eh si...meglio chiarire da subito alcuni concetti, come dire "patti chiari amicizia lunga".
Prima di proseguire con successive riflessioni vorrei porre delle premesse per non essere frainteso. Capiterà sovente in questo blog di leggere considerazioni che in qualche modo implicano l’idea (o il concetto) di progresso che danno per assodata una logica di evoluzione nell’esistenza della civiltà umana.
Il senso in cui io intendo evoluzione però,
non va confuso, tengo a precisare, con l’idea kantiana di sviluppo umano.
L’umanità non risponde a una sorta di legge universale o, meglio, ad un insieme
di leggi universali. L’umanità non giunge ad uno stadio di adulto dopo una fase
infantile dove necessità di esser presa per mano, come, appunto, un bambino che
si smarrisce senza il genitore.
L’illuminismo prima e il positivismo poi, hanno
trasmesso un’immagine del progresso e dello sviluppo umano come processo, come
essenza ontologica, potremmo dire, dell’uomo nel suo essere nel mondo. In tal
modo la storia dell’umanità potrebbe essere nient’altro che la storia della sua
evoluzione. Se è mia convinzione che il progresso sia in qualche modo
connaturato all’umanità non lo è, però, per motivi ontologici, ma per cause ed
effetti che si accavallano e s’incrociano determinando a volte anche
casualmente evoluzioni o arretramenti nella Storia visibili- e definibili forse
come tali - soltanto a posteriori.
Di più. Il progresso come lo s’intende oggigiorno
nelle dispute massmediatiche credo non debba essere confuso con l’idea
elementare di “progresso industriale”. L’evoluzione della struttura
economico-produttiva della teoria marxiana non è così banale come sostengono
alcuni sia a favore che contro, per questo motivo non hanno senso, o ne hanno
di certo pochissimo, le speculazioni attorno alla decrescita felice e amenità
analoghe. L’istituirsi di un sistema comunista nell’accezione marxiana non
prevede a mio avviso una quantificazione del progresso in termini di produzione
di merci e servizi. Tutto ciò significherebbe nient’altro che banalizzare la
teoria di Marx che prevede si il passaggio da un sistema dominato dal capitale
ad un sistema senza classi e il conseguente sviluppo delle forze produttive, ma
dove quello stesso sviluppo non è definito in semplici termini di incremento di
produzione di merci. 1
Di seguito tenterò di entrare un po’ più nel
merito del concetto di sviluppo come è da me inteso, sperando di non
confondere, invece di chiarire, quel che dovrebbero essere chiarito.
Nel momento stesso in cui l’uomo abbandona la
propria animalità selvaggia e primordiale, si separa dalla natura e
dall’indistinzione, prende coscienza della propria individualità, della
solitudine prodotta dall’isolamento originato dalla consapevolezza di essere
“uno”, individuo separato dagli altri, dalla natura da cui proviene. Ma nel
contempo può essere umano ed evadere dall’animalità solo vivendo tra gli altri
uomini, dunque soltanto attraverso la consapevolezza della propria umanità e
riconoscendosi negli altri è cosciente di sé stesso o è destinato a regredire
allo stato selvaggio.
(…) significa riconoscere in sé e negli altri la
qualità di esseri umani, capaci di sentimenti forti, temperati dalla presenza
dei lumi della ragione e per questo degni di rispetto in quanto segnano
l’appartenenza comune alla specie umana. Lévinas (1987) direbbe che il volto
dell’altro ci chiama e ci fa scoprire il nostro proprio volto e il diritto di ciascuno
a un volto che non si può distruggere. 2
La condizione dell’umanità di dimostrare sempre
più a se stessa tale consapevolezza per portarla fuori dalla barbarie non può
che essere progressiva, ma ciò non significa che la storia sia a fortiori
evoluzionistica e dunque deterministica. L’uomo è sempre soggetto a ricadere
all’indietro e il processo di civilizzazione non è mai compiuto e non
garantisce la continuità del progresso
Una civiltà impiega secoli a costruire le sue
fondamenta, i suoi monumenti, la sua arte di vivere. Ci mette appena qualche
anno o alcune decine d’anni a distruggersi (l’esempio nazista o dei khmer rossi
possono bastare) e ancora meno a distruggerne altre. 3
Non credo risulti da qualche parte negli scritti
di Marx che il progresso umano si compia definitivamente con la trasformazione del presente sistema
capitalistico-borghese. Al contrario Marx afferma una continua tensione agente
nei diversi piani dei sistemi di produzione: nei rapporti economici, dunque, ma anche sociali. E' vero che i rapporti sociali discendono dai rapposrti di produzione, ma la realizzazione totale in un sistema senza classi non ha esito scontato. Ed è appunto soltanto a posteriori che potremo giudicare l'avvenuta realizzazione.
I rapporti sociali sostanzialmente non cesseranno di essere conflittuali sin quando non avrà completo dispiegamento l'assenza di classi.
La propaganda liberista e capitalista ha convinto
molti che l'unica alternativa all'utopia egualitaria e di giustizia sociale
fosse il raggiungimento del benessere economico per tutti, attraverso
l'integrazione (l'assoggettamento in altri termini) dell'economia capitalistica
sul piano mondiale, sostituendo quell'utopia cosiddetta socialista con l'utopia
tecnocratica, borghese, fondata sulla “democrazia” dell'informazione.
L'integrazione doveva avvenire per mezzo di un mito: la pacificazione raggiunta
con la redistribuzione "democratica" delle risorse.
Questo mito, che ha radici nell'ottocento,
esaltato con le "autostrade dell'informazione" nella contemporanea
società detta da alcuni della terza era, ha contribuito ad accelerare il
progetto di dominio del capitale Oggi possiamo vedere gli effetti di
quell'utopia, se vogliamo, in tutto il mondo. L'introduzione di
tecnologie informatiche è servita ad espellere dal circuito produttivo milioni
di lavoratori (effetti della globalizzazione), senza offrire alternative economiche capaci di
avviare il reinserimento dei lavoratori esclusi, accrescendo sul piano mondiale
un proletariato che, secondo alcuni proclami ideologici dell'ultimo ventennio,
sembrava (o doveva sembrare) in via di estinzione.
Le tecnologie applicate al progresso
capitalistico sono servite e servono soltanto ad accrescere profitti e
catastrofi finanziarie che affamano sempre più i lavoratori di tutto il mondo e
disorientano politicamente non solo i governi, ma l’intera opinione pubblica.
L'approvazione dell'ideologia liberista e
capitalista ha creato le condizioni politiche e sociali per l'emergere di un
potere che sta trascinando il mondo intero nella spirale di una "guerra
infinita". In Italia, come in molti altri paesi, si cerca di far tornare
indietro la storia a tempi che, non dobbiamo dimenticare, hanno provocato
milioni di morti.
Un altro effetto sul piano internazionale è
quello di aver moltiplicato la costituzione di nuovi stati (attualmente 192) e
il numero di conflitti, con la conseguente perdita di altri milioni di vite
umane. L'egemonia dei paesi capitalisti, inutile dire, in special modo quella
degli Stati Uniti, ha riportato in "onore e gloria" le strategie
geopolitiche studiate originariamente dalla Germania nazista. Questo dovrebbe
preoccupare! Preoccupazione aggravata dal fatto che nessun altro potere
politico è in grado di opporsi al dominio militare di un solo paese.
L'invasione della Polonia da parte di Hitler aveva sollevato l'opposizione di
intere popolazioni, l'invasione americana dell'Afghanistan e dell'Iraq,
sostenuta dalla falsa propaganda antiterroristica, ha invece incontrato il
plauso, seppur a volte del tutto ideologico, di decine di paesi e dei loro
mezzi di comunicazione di massa ufficiali. Non sono servite le proteste di
milioni di persone in tutto il mondo.
Questo, di nuovo, dovrebbe preoccupare! Il fatto
che pochi paesi al mondo possano decidere, beffandosi di ogni opposizione, di
perpetrare stragi di civili perché nessun altro paese possiede la forza
sufficiente per intervenire. E non s'intende intervenire con la violenza, ma
nemmeno con ritorsioni economiche o, sul piano politico, per mezzo delle
diplomazie, anzi, semmai in caso di opposizione le si deve subire. E' il caso
di Francia e Germania durante l'intervento in Iraq.
Opposizione ideologica, certo, legata a calcolati
interessi economici e finanziari, ma di esempio sufficiente a mostrare lo
strapotere del nuovo imperialismo.
Questa spirale sta trascinando intere popolazioni
in tragedie infinite. La stessa storia si sta ripetendo anche in Libia dove il
numero dei morti sino ad oggi e prevedibilmente nel prossimo futuro, prima cioè
che si raggiunga un assestamento politico, saranno sicuramente un numero
impressionante. Molti di più di quanti il regime totalitario di Gheddafi
avrebbe mai potuto perpetrare se avesse vissuto ancora trent’anni.
Non che i secoli precedenti non avessero
conosciuto i loro massacri. Tuttavia il xx secolo ha conferito al dominio
dell’omicidio di massa un principio di legittimità. 4
credo che tale dichiarazione dovrebbe far
riflettere più di quanto possa fare una lettura veloce, perché di primo acchito
potrebbe essere considerata più scontata di quel che è in realtà. Ci si
dovrebbe soffermare soprattutto su di alcune implicazioni contenute nella parola
“legittimità” .
In questa affermazione il “principio di
legittimità" cui si riferisce Eugene Enriquez non dovrebbe essere interpretato
come se un qualche ordine giuridico avesse assorbito costitutivamente norme
tese a legittimare i massacri perpetrati nel recente passato (anche ammesso che
ciò possa in qualche momento essersi relativamente verificato), e nemmeno
l’altrettanto semplicistica constatazione che gli Stati hanno il monopolio
legittimo della violenza.
L’affermazione di Enriquez è, a mio modo di vedere,
ben più radicale e significa che gli stermini e i massacri hanno distinto a tal
punto la storia in generale, e la vita delle persone in particolare, del secolo
scorso (e a quanto pare ciò sta accadendo anche per quello presente), che
l’omicidio di massa è diventato un fenomeno non più in grado di scuotere la
coscienza collettiva o il valore etico della vita delle persone. Habermas in
“La rivoluzione in corso” descrive esattamente la stessa idea a proposito
dell’atteggiamento della maggioranza dei tedeschi in epoca nazista . E’ questa
indifferenza di fronte alla morte di milioni di esseri umani che più turbava
allora e dovrebbe tornare a turbarci oggi.
Come osserva Hobsbawn
(…) questo secolo ci ha insegnato, e continua a
insegnarci, che gli uomini possono imparare a vivere nelle condizioni più
brutali e teoricamente intollerabili, non è facile cogliere fino a che punto
(purtroppo in misura sempre crescente) vi sia stato un regresso verso ciò che i
nostri antenati ottocenteschi avrebbero definito barbarie. 5
I motivi che hanno portato l’umanità a tali
limiti sono certamente molteplici e difficili da sondare. Se mi è lecito vorrei
individuare almeno alcuni di quei motivi (oltre quelli cui è stato possibile
accennare sin qui), anche se in modo molto superficiale, ovviamente
tralasciandone molti altri.
• Ciò
che cambiò alla svolta del secolo, e subì un’alterazione irreparabile, fu il
sapere stesso come modo d’essere preliminare e indiviso fra il soggetto che
conosce e l’oggetto della conoscenza. 6
Se pensiamo che ancora nel 1750 Buffon ipotizzò che la Terra avesse
75.000 anni e la vita era apparsa soltanto da 35.000 anni, ma fu considerata
all’epoca una “buffoneria”, e confrontiamo quel paradigma culturale (così
lontano ad esempio dall’idea di poter stabilire scientificamente la datazione
della comparsa della vita sulla terra) all’attuale (impegnato nella datazione
dell’intero universo) è legittimo pensare che quella svolta abbia avuto per
l’umanità l’effetto di un salto nel vuoto. Non è sufficiente infatti rilevare
semplicemente l’accumularsi delle conoscenze lungo due secoli di storia per
pervenire agli eventi che hanno permesso la fissione nucleare. La mentalità del
secolo scorso avrebbe ritenuto la maggior parte delle tecnologie esistenti ora
il prodotto di un’immaginazione malata, oggi la realizzazione di alcuni
progetti che parrebbero fantascientifici sono solo questione di tempo. E’
accaduto qualcosa che ha portato l’uomo oltre se stesso. Abbandonando ogni
riferimento all’organicità e all’unità con la natura, spezzando definitivamente
il rapporto tra le “parole e le cose” e trasformando il discorso in linguaggio,
per ricordare Foucault, l’uomo ha di fronte a sé l’oscurità nella quale dovrà
ritrovare sé stesso: la profondità apparentemente confusa di quelle analisi che
spalancano il baratro dell’ignoranza dello sguardo rivolto all’interno. Il
panico di sporgersi per guardare il fondo è verosimilmente una resistenza
psicologica, un’attivazione del meccanismo di difesa che ancora ci impedisce di
immergerci nel buio del nostro inconscio.
• trasmissione
del processo competitivo che ha come conseguenza l’autoriproduzione della lotta
fino all’eliminazione del concorrente. Credo che questo sia una delle
contraddizioni intrinseche al sistema capitalistico. E’ vero che opera il
compromesso a condividere il potere, da cui deriva la “cooperazione
capitalistica”, ma è altrettanto vero che questa è sempre soggetta a crisi che
ne aggravano la stabilità.
• L’illusione
prodotta dall’ideologia capitalista e liberista che l’ascesa ad un livello
economico più alto potesse affrancare dallo sfruttamento. La logica
sviluppista, improntata al rastrellamento e al saccheggio delle natura e alla
conseguente conquista del monopolio delle risorse da parte di pochi ha
funzionato così bene che quasi la totalità del mondo economico, scientifico,
intellettuale e via via sino allo strato sociale più basso, in generale, il
pensiero liberista ha lavorato perché trionfasse questo principio. E’ vero, la
possibilità di estendere all’infinito questo sviluppo era un’illusione e oggi
pare quasi antiquato parlarne, quasi che se ne sia preso coscienza e sia stato
superato, ma, nonostante tutto, i criteri economici di sviluppo inteso come
semplice incremento di beni e servizi reggono ancora i programmi dei governi
sia di destra che di sinistra.
Il fatto che la contraddizione sviluppo
economico/benessere generale appaia in tutta la sua evidenza non conduce
direttamente alla soluzione dei problemi.
Queste considerazioni stanno a dimostrare che non
è lo sviluppo economico in sé e sé che consente di raggiungere una condizione
di benessere per tutti. Le tecnologie, lo sviluppo industriale e i
miglioramenti economici possono portare al benessere generale solo quando
smetteranno di essere improntati al profitto e saranno accessibili a tutti.
E questo, a mio avviso, non può essere che alla base dell' internazionalismo.
Note
1 Prendendo a prestito e rielaborando
un’argomentazione di Maurice Dobb in “Economia politica e capitalismo” e muovendosi
dall’idea di progresso come possibilità di estendere i benefici di un dato
ritrovamento tecnico a livello di massa (in sostanza il socialismo) e non come
avviene nel sistema retto dal capitale soltanto a “cascata”, se, per esempio, una
tecnologia consente di ottenere un miglioramento nel risparmio energetico nella
costruzione di case la produzione potrà essere diretta in modo cooperativo per
estendere a tutti il vantaggio ottenuto dal miglioramento senza preoccupazione
del profitto. L’attività produttiva non sarebbe condizionata, dunque, dai
maggiori profitti ottenibili in settori teoricamente più remunerativi (logica
che sta alla base del sistema economico retto dal capitale).
2 Eugene Enriquez - Uccidere senza colpa (Testo
originale presente a lato)
3 Op. cit.
4 Op. cit.
5 Jurgen Habermas - La rivoluzione in corso -
Feltrinelli - 1990
6 Eric Hobsbawn – Il secolo breve – BUR - 2000
7 Michel Foucault – Le parole e le cose – Rizzoli
– 1998, pag. 273
lo stesso
Voltaire riteneva i fossili uno scherzo della natura e la teoria di Alfred
Wegener della “Deriva dei Continenti” risale soltanto al 1915. Le prime ipotesi
sull’origine dei fossili risalgono al 1830 per opera di Lyndell (Principi di
Geologia) che per la prima volta attraverso uno studio sistematico mise in
discussione pubblicamente l’autorità della Bibbia.
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