lunedì 20 agosto 2012

Una luce in fondo al tunnel

- Vorrei chiedere una cosa a chi dice di vedere una luce in fondo al tunnel "Ma di quali sostanze fate uso?" E' solo una curiosità. Niente di personale  -


domenica 19 agosto 2012

Sempre a proposito di Economie senza mercato

 Sempre a proposito della questione relativa all'argomento Economie senza mercato vi possono essere aspetti correlati che presentano approcci interessanti da prendere in considerazione e che andrebbero ampiamente dibattuti. L'articolo che segue, tratto da Sotto le bandiere del marxismo può essere spunto di riflessione. 


Una Disneyland sociale nell’oceano capitalista


I comunisti usano eccessivamente l’espressione “piccolo borghese”, è vero,  ma, nel caso dell’articolo di Pallante e Bertaglio,(1) non si possono adoperare altri termini: “La saldatura tra i piccoli contadini, i commercianti al minuto, le piccole e medie aziende, gli artigiani e i professionisti radicati nel territorio in cui vivono, con i movimenti che si oppongono alla realizzazione delle grandi opere e alla privatizzazione dei servizi pubblici essenziali, può avvenire emarginandosi dalla globalizzazione e rivalutando le economie locali…”

Questa autoemarginazione dovrebbe rendere possibile l’abbandono dell’agricoltura chimica, l’accorciamento delle filiere “la massima autonomia nella produzione alimentare, in quella energetica e nelle produzioni necessarie a soddisfare i bisogni fondamentali: edilizia, abbigliamento, arredamento, utensileria, attività artigianali, riparazioni e manutenzioni.”

“In un’economia globalizzata le piccole e medie aziende possono trovare spazio solo nella produzione di semilavorati e componenti per le aziende che operano sul mercato mondiale (l’indotto) o nella produzione di prodotti finiti per conto di grandi marchi che operano sul mercato mondiale (contoterziste). Solo liberandosi dai vincoli della globalizzazione e producendo per il mercato locale in cui sono inserite, solo offrendo prodotti finali ad acquirenti del territorio in cui operano, queste aziende possono valorizzare la ricchezza della loro professionalità, della loro creatività e della loro esperienza.”

Si tratterebbe, dunque, di isolarsi dal contesto capitalistico, formando piccole comunità di produttori e professionisti autosufficienti. In altre parole, una sorta di comune dotato delle tecniche più moderne. Ma i comuni medievali dovevano difendere con una selva di norme corporative e con le armi il loro mercato locale, e l’isolamento venne  intaccato  dalle monarchie e spazzato via definitivamente dalle rivoluzioni borghesi. Come potrebbero queste comunità, salvarsi dalla concorrenza internazionale ?

L’articolo si fonda sul presupposto infondato che le comunità locali possano decidere per conto proprio, come se non ci fosse uno stato iperburocratizzato che s’impadronisce di più del 50% dei proventi dell’economia legale, che tollera l’espansione del lavoro nero e tratta con la malavita organizzata, partecipa con la Nato, un’alleanza di briganti imperialisti,  al bombardamento di altri paesi, dalla Jugoslavia all’Afganistan alla Libia. Come può convivere una piccola comunità autonoma con un tale predone ?

Il capitalismo occidentale mobilita mercenari, tagliagole e fanatici per conquistare nuovi mercati, e per sottrarre agli avversari il controllo delle vie del petrolio e del gas, impiegando droni, bombardieri, missili  all’uranio impoverito, le forme più evolute di monitoraggio satellitare, mobilitando le sue centrali spionistiche e i media. Per quale ragione questo capitalismo gangster dovrebbe lasciarsi sottrarre vaste zone permettendo la rinascita di mercati locali protetti? Al massimo, potrebbe tollerare in una piccola valle un esperimento del genere, ma lo trasformerebbe in una curiosità, una sorta di Disneyland sociale, e organizzerebbe l’afflusso dei turisti. Certi esperimenti sono ammessi solo se isolati. Il parco di Yellowstone, ad esempio, vuol dare a chi la visita o  ne vede i filmati, l’idea di un’America che protegge gli animali e i boschi. In realtà serve a celare, dietro a un’immagine idilliaca, un regime spietato che distrugge  natura ed esseri umani, non solo in casa propria, ma anche nel resto del mondo con le guerre.

Si pensa che la tecnica, di per sé, possa risolvere tutti i problemi. Le energie rinnovabili ? Dopo la fase sperimentali, i grandi paesi si sono gettati in questa produzione, e la Cina sta vincendo la concorrenza, persino industrie tedesche hanno dovuto abbandonare il campo, altro che piccola produzione locale. I carburanti di origine vegetale, entrati nella fase industriale, richiedendo grandi quantità di mais, hanno affamato intere popolazioni. Le tecniche nuove sono armi a doppio taglio, tutto dipende dall’uso sociale che se ne fa. Una nuova macchina, se usata capitalisticamente, getta nella strada migliaia di operai, se usata socialmente può ridurre l’orario di lavoro e la fatica di chi lavora. L’energia solare, eolica, geotermica non sfuggono a questa regola.

Le nuove tecniche, più sono evolute, più indeboliscono i settori sociali al tramonto. Le classi sociali fondamentali nel capitalismo sono tre: imprenditori (dell’industria, dell’agricoltura, del commercio…), proprietari terrieri e proletari. Più il capitale si sviluppa, più la piccola borghesia classica, residuo storico di sistemi produttivi precedenti, è in pericolo. E’ vero che si forma un altro settore di piccola borghesia strettamente dipendente dal capitale (benzinai, negozi in leasing, autoriparazioni…), ma cresce assai più rapidamente  il numero dei parassiti, faccendieri, speculatori, malavitosi, ecc.

La piccola borghesia ha sempre visto il comunista come il pericolo, il fanatico che le voleva portare via il negozietto, il campicello. L’espropriatore è invece il capitale, tramite la concorrenza, e con la catena dei debiti. Molti negozi già ora sono puri concessionari di grandi imprese, e molte terre di piccoli contadini sono in realtà delle banche, che detengono le ipoteche. Chi finora è riuscito a salvarsi non ci riuscirà in futuro, perché la crisi rende più aggressivi i grandi capitali che, non potendo aumentare i guadagni con l’industria, si dedicano alla rapina legalizzata, impadronendosi con mille trucchi, pressioni e minacce, dei beni delle piccole e medie imprese. Si aggiunga lo stato, che drena masse enormi di denaro dalle classi sociali più deboli per darle alle banche o alle grandi imprese.

Quindi, la piccola borghesia, lungi dal baloccarsi col sogno di un piccolo mondo socialmente antico, sia pur tecnologicamente al passo, deve rendersi conto che propria caduta nel proletariato è imminente. Un tempo, un negoziante, facendo studiare i figli, poteva sperare di dare loro un posto sicuro e ben rimunerato. Oggi, laureati in materie scientifiche, ricercatori chimici e fisici, impegnati in importanti ricerche, sono condannati al precariato e a stipendi che non superano di molto quelli di un manovale. Qualche individuo può sfuggire alla proletarizzazione, non la massa.

Non siamo condannati per l’eternità all’inferno capitalistico, con le sue guerre economiche e finanziarie - non meno terribili di quelle condotte con armi vere e proprie. Ma la soluzione non può essere locale e localistica. Bossi si è inventato un paese di pura fantasia, la Padania, e molti gli hanno creduto. Ha ancora meno senso immaginare una piccola Yellowstone sociale, al riparo dalle tragedie del capitalismo.

Il legame tra chi lavora e gli strumenti di lavoro, che esisteva nell’artigianato e nella piccola agricoltura, è stato infranto dal capitale, che li ha espropriati, ma nello stesso tempo ha reso sociale la produzione. Occorre espropriare gli espropriatori, ma tornare alla piccola proprietà, anche se fosse possibile su vasta scala, non impedirebbe la rinascita del capitalismo in breve tempo. Bisogna socializzare i mezzi di produzione, perché il ricongiungimento tra lavoratori e strumenti di lavoro è possibile solo in forma collettiva, salvaguardando la produzione di massa, non più finalizzata al profitto, ma alle esigenze della popolazione.

Se i lavoratori, la stragrande maggioranza dell’umanità, riusciranno a conquistare il potere – con la rivoluzione, non con le chiacchiere elettorali - allora, al posto dell’uso capitalistico delle macchine subentrerà l’uso sociale, la riduzione dell’orario di lavoro di oltre la metà assorbirà la disoccupazione. Venendo meno le esigenze del profitto, sparirà la speculazione edilizia, la produzione di merci inutili e dannose, la pubblicità frastornante.  Con  le tecniche americane di demolizione degli edifici, una volta data un’abitazione a tutti, si potranno distruggere gli immobili superflui e riconquistare vaste zone all’orticultura, alle serre, alla vita sociale.

I socialdemocratici di un tempo, i Treves e i Turati, erano d’accordo su questi punti, ma s’illudevano che fosse possibile giungervi per via pacifica, parlamentare. I comunisti dissero che quella via era diventata impossibile per la crescita della burocrazia e del militarismo, e che occorreva abbattere l’imperialismo. Il capitalismo non avrà un tacito tramonto, ma con le sue guerre e le sue crisi metterà in pericolo l’intera umanità, se la classe operaia e le classi sfruttate non sorgeranno per schiacciarlo definitivamente.

Michele Basso

10 agosto 2012

giovedì 9 agosto 2012

Parole chiare.




Parole chiare

Il governo dei “tecnici” non smette di sfornare capolavori. Ha esordito portando l’età lavorativa alle soglie della vecchiaia. Questo significherà, tra le altre cose, esporre una quota maggiore di lavoratori ai rischi e alle malattie professionali. La famosa “speranza di vita”, fra qualche anno, farà una brusca inversione a “U”. Naturalmente, anche il peggioramento generale delle condizioni dei ceti popolari contribuirà a questo risultato se, come ormai ci dicono le statistiche ufficiali, sempre più gente rinuncia a farsi curare perché non è più nelle condizioni di sostenere le spese mediche. La modifica dell’articolo 18, cioè la via libera ai licenziamenti facili, non farà che aggravare il quadro generale della condizione operaia.

Passata dunque, senza resistenze apprezzabili, la “Riforma del lavoro”, le attenzioni del governo si rivolgono ora alla spesa pubblica e al pubblico impiego. Si parla dei dipendenti dello stato e degli enti locali come di oziosi privilegiati. “Bisogna poterli licenziare!” , si grida da tutte le parti. L’obiettivo del governo è chiaro: ridurre del 10% la massa dei dipendenti nell’ambito di una spending review che andrà a indebolire ulteriormente il sistema sanitario e gli altri servizi alla popolazione. Perché mentre si può rimettere in discussione ogni norma, se questa tutela gli interessi della gente comune, non si può certo mettere in discussione, tanto per fare un esempio, il servizio del debito, ovvero quei settanta o ottanta miliardi che il Tesoro paga mediamente ogni anno ai detentori dei titoli pubblici, in grandissima parte banche, fondazioni e gruppi finanziari. Secondo Monti e secondo i suoi sostenitori, I lavoratori, pubblici e privati, dovrebbero capire. Dovrebbero tacere ed adeguarsi. Che cosa sono le loro pretese di una vita decente, di un lavoro sicuro e di un salario dignitoso, di fronte ai mercati, di fronte alle leggi dell’economia? Dovrebbero rimettersi fiduciosi alla politica economica di quel manipolo di milionari, banchieri, avvocati e ragionieri arricchiti, che siede al governo. Ora si stringe la cinghia, ci dicono, ma poi arriverà la crescita.

Intanto però loro la cinghia non la stringono e l’unica cosa che cresce è la disoccupazione. E come potrebbe essere altrimenti? In ogni azienda, in ogni amministrazione, nel pubblico come nel privato, la parola d’ordine è alleggerirsi . Diminuire il numero dei dipendenti è diventato sinonimo di efficienza economica. I sindacati che cosa fanno? Stanno pensando allo sciopero generale. Proprio così: “stanno pensando”. In pochi mesi, da quando si è insediato, il governo “tecnico” ha fatto a brandelli i pochi diritti fondamentali rimasti ai lavoratori e loro… stanno pensando! Eppure sono maturi i tempi per una risposta generale. Non parliamo di uno sciopero ogni tanto o di una manifestazione a Roma una volta l’anno. Parliamo di un piano di lotte che coinvolga tutto il mondo del lavoro su una piattaforma che ne rappresenti gli interessi complessivi. Un salario minimo vitale garantito a tutti e protetto dagli aumenti dei prezzi, una spartizione del monte ore lavorativo fra occupati e disoccupati senza decurtazione della paga, la proibizione dei licenziamenti. Sono questi i provvedimenti di cui tutta la classe lavoratrice avrebbe immediato bisogno per mantenere un livello accettabile di civiltà, nel pieno di una crisi che il centro studi della Confindustria ha paragonato, per i suoi effetti economici e sociali, a una guerra.

Una mobilitazione generale del mondo del lavoro è certamente qualche cosa di grande e di difficile da realizzarsi. Senza dubbio però è anche il solo presupposto perché milioni di persone non cadano nella miseria e altrettante ci si avvicinino. Per tutto c’è un inizio. Per ogni grande impresa c’è un primo piccolo passo. Oggi il primo passo è mettere insieme i lavoratori che non vogliono continuare a subire senza reagire, quelli che non sono rassegnati, quelli che non dicono “non possiamo farci niente”.

Di che cosa si tratta in pratica? Di passare dalle discussioni casuali davanti alla macchinetta del caffè, alla mensa aziendale, nello spogliatoio, all’inizio di un’attività cosciente e organizzata di agitazione e denuncia sistematica. Anche pochi lavoratori possono rappresentare una forza se ben organizzati. Certo, non possono promuovere da soli uno sciopero generale, ma possono iniziare a combattere quella passività, quell’apatia, quella sfiducia nelle proprie forze che così spesso paralizzano la classe lavoratrice. Per il fatto stesso di esercitare questo tipo di attività, in una fabbrica o in un quartiere, tre o quattro lavoratori rappresenteranno già un inizio promettente, contribuiranno ad alzare il morale dei loro compagni, toglieranno terreno alla rassegnazione, dimostrando nei fatti che si può reagire, intanto facendo intendere la propria voce, con volantini, con riunioni, con bollettini periodici, con piccole manifestazioni. Non è più l’ora della rassegnazione. È l’ora dell’impegno in prima persona e dell’iniziativa perché nessuno toglierà le castagne dal fuoco ai lavoratori se non lo faranno loro stessi.

mercoledì 8 agosto 2012

Essere comunisti...più o meno.


Non condivido le tesi sostenute da Alberto Burgio che sembra esprimere esattamente quel "essere comunisti" rappresentato da essere comunisti.
O meglio: non ne condivido l'orientamento. Le tesi in sé non sarebbero del tutto inaccettabili. Sono dotate di ponderazione, logica e assennatezza, e come potrebbero non esserlo.

Contengono criteri e prospettive condivise da prestigiosi teorici e studiosi, quelli appunto citati da Alberto Burgio. Tutti nomi di cui spesso ci si ritrova a leggere anche con profonda soddisfazione sia in articoli che saggi accademici.
Le analisi proposte, dunque, da questa intellighenzia sono il più delle volte appropriate e illuminanti.
Pare assennato, ad esempio, rivendicare riduzioni dell'orario di lavoro e imporre prelievi fiscali a chi si è già appropriato di quote di ricchezza che gli consentono di viviere (a loro, si) al di sopra delle possibilità.
Non bisogna dimenticare in tutto questo marasma che tra i debiti che vorrebbero far pagare ai lavoratori sono conteggiati finanziamenti concessi a chi ha preso soldi  dalle banche in sfacelo che ora chiedono soldi allo stato borghese, perché evidentemente ne hanno concessi sin troppi.
La questione risiede, invece, non nel risanare questo sistema in disfacimento, ma nel trasformarlo radicalmente. Le soluzioni sono ottime per chi questo sistema vuol tenerselo più o meno così com'è, tutto qui.
E, magari, sarà uno slogan pure un po' equivoco, come sotiene qualcuno, ma vorrei riproporre qui una famosissima citazione marxiana: i filosofi hanno descritto il mondo ora si tratta di cambiarlo.

L'articolo è presente su Internet in vari siti, uno dei tanti è quello citato nel cappello introduttivo

L’oscuramento

di Alberto Burgio


Immaginiamo che al tempo della disputa tra geocentrici ed eliocentrici esistesse già un sistema dell’informazione simile all’attuale (televisioni, quotidiani e rotocalchi). E supponiamo che dalla vittoria degli uni o degli altri dipendessero le condizioni di vita della gente che da quelle televisioni e da quei giornali veniva informata. Come giudicheremmo, in questa ipotesi, una informazione che avesse sistematicamente nascosto la disputa e, per esempio, rappresentato la realtà sempre e soltanto sulla base della teoria geocentrica? Di questo, a mio modo di vedere, si tratta nella lettera sul “Furto d’informazione” che abbiamo inviato a molte agenzie di stampa e ad alcuni giornali nei giorni scorsi e che il manifesto (soltanto il manifesto) ha pubblicato integralmente in prima pagina. Il tema della nostra denuncia è l’«ordine del discorso pubblico» sulla crisi. Un tema concretissimo e materiale, produttivo di fatti altrettanto concreti, che recano nomi illustri: senso comune, ideologia, consenso.

Naturalmente la crisi è fatta di dinamiche economico-finanziarie, alla base delle quali operano, sul piano nazionale e «globale», determinati assetti di potere e una determinata struttura dei processi di produzione e circolazione. Su questo terreno si sono verificate, a partire dal 2007, le vicende che hanno innescato la tempesta finanziaria. Ma la questione che subito si pone – basta un attimo per comprenderlo – è che qualunque cosa si dica a questo riguardo è frutto di interpretazioni. Soltanto persone faziose, intolleranti come Giuliano Ferrara possono pretendere che un’opinione (la loro) sia «oggettiva» e inoppugnabile. Chiunque altro converrà che ogni narrazione implica assunzioni teoriche, ipotesi e, appunto, interpretazioni.

Nel caso della crisi, semplificando al massimo, si fronteggiano due schemi interpretativi. Il primo, mainstream e prevalente sul piano politico, riconduce la crisi a due cause: la crisi fiscale (dovuta a un eccesso di spesa pubblica – i cosiddetti sprechi – in materia di welfare e di pubblico impiego) e la sproporzione tra retribuzioni e produttività del lavoro. Da qui fa discendere, a catena, la crisi dei debiti sovrani, i severi verdetti delle agenzie di rating e le decisioni dei mercati finanziari. Dopodiché la terapia è scontata: essa impone una «rigorosa» politica di tagli (santificata nel fiscal compact), licenziamenti e blocco delle assunzioni, deflazione salariale, privatizzazioni e alienazione del patrimonio pubblico, riduzione delle tutele e dei diritti del lavoro dipendente. L’idea-base di questa visione (coerente col discorso sulle «compatibilità» che da venticinque anni fa proseliti anche a sinistra) è che da mezzo secolo viviamo (più precisamente: la massa dei lavoratori dipendenti vive) «al di sopra delle nostre possibilità». La speranza che la informa è che il «risanamento» della finanza pubblica «rassicuri» i mercati e plachi la fame degli speculatori. O meglio: che questi scelgano altri obiettivi, posto che speculare è la loro ragion d’essere.

L’altra interpretazione della crisi, familiare ai lettori di questo giornale, rovescia la prospettiva. Sostiene che la crisi sia figlia dell’assenza di regole al movimento del capitale industriale (delocalizzazioni) e finanziario (speculazione), della povertà dei corpi sociali (provocata proprio dalle «terapie» propugnate dalla prima ipotesi) e della socializzazione delle perdite dei privati (a cominciare dalle banche, alle quali gli Stati hanno regalato migliaia di miliardi di euro, 4600 nella sola eurozona). Afferma che, lungi dall’essere giudici imparziali, le agenzie di rating lavorano per la privatizzazione delle democrazie (in quanto i governi obbediscono alle loro decisioni), oltre a spianare la strada alla speculazione. Ritiene che le politiche adottate dai governi servano soltanto a drenare enormi ricchezze verso le oligarchie finanziarie.

E suggerisce misure di tutt’altro segno: regolazione dei mercati (non c’è bisogno di essere in tutto d’accordo con Lenin per avere una buona opinione degli accordi di Bretton Woods); una riforma della Bce che ne faccia una vera banca centrale (come la Fed e la Bank of England, che dal 2008 acquistano massicciamente i rispettivi titoli di Stato); incremento dell’occupazione (a cominciare dal settore ambientale, dal welfare e dalla formazione) e riduzione dell’orario di lavoro per accrescere la domanda aggregata; equità fiscale (anche per mezzo di prelievi strutturali su patrimoni e rendite); drastica riduzione della spesa militare. Sottesa a questa prospettiva è la tesi enunciata di recente da Amartya Sen, secondo il quale questa crisi non è il sintomo del fallimento degli Stati, bensì l’effetto del fallimento del mercato, che gli Stati hanno provveduto a salvare. Quanto alle proposte (da tempo avanzate da autorevoli studiosi, tra cui Luciano Gallino, Giorgio Lunghini e Guido Rossi), esse dimostrano come la stucchevole litania che ne lamenta l’assenza rientri nella sistematica disinformazione che abbiamo denunciato. Ora, poniamo che questa pedestre sintesi sia accettabile: che cosa ne discende riguardo alle questioni poste dalla nostra lettera? Una conseguenza molto semplice che, come ha osservato Carlo Freccero, chiama in causa direttamente i compiti dell’informazione e, indirettamente, la qualità della nostra democrazia e le relazioni pericolose tra potere economico e potere politico al tempo della «neoliberismo globalizzato». Se è vero che esistono due letture della crisi, di entrambe queste letture la stampa ha il dovere di tenere conto. Questo dovere incombe in primo luogo sul servizio pubblico (in Italia, la Rai) e sulle maggiori testate indipendenti, sempre che esse intendano assolvere una funzione nazionale e non operare come partiti politici. Tenere conto della presenza di due posizioni contrapposte significa, in questo caso, non presentare quelle dei governi europei e delle istituzioni comunitarie come risposte obbligate, bensì, se non altro, spiegare che si tratta di scelte coerenti con una di queste posizioni, e da essa imposte. Quando un governo decide di tagliare ancora le pensioni, di cancellare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, di «rivedere la spesa» riducendo posti di lavoro e servizi, di aumentare la pressione fiscale sul lavoro dipendente e di alienare il patrimonio pubblico, la stampa libera di un paese democratico ha il preciso dovere di spiegare al pubblico dei non addetti ai lavori che ciò non avviene perché «c’è la crisi», ma perché questo governo considera indiscutibile la sovranità dei mercati e ritiene giusto subordinarle ogni altro interesse.

Dopodiché tutto il dibattito su chi è tecnico e chi politico andrebbe, come merita, dritto in archivio. Ognuno vede che – fatte pochissime eccezioni – l’informazione non assolve questo dovere, che probabilmente nemmeno riconosce. La nostra lettera ha denunciato tale stato di cose, sottolineandone la rilevanza sul terreno democratico. E proprio perché siamo convinti del nesso che lega informazione e democrazia, abbiamo chiamato in causa anche le massime autorità dello Stato, che a nostro giudizio rischiano di venir meno all’obbligo di imparzialità nella misura in cui offrono il proprio incondizionato sostegno alle scelte politiche del governo, sposandone, per ciò stesso, le legittime ma discutibili opzioni teoriche. Siamo ingenui? Ignoriamo che tutto ciò non avviene per caso? È probabile che ogni denuncia sconti un po’ d’ingenuità, ma saremmo imperdonabili qualora ritenessimo che un appello all’onestà intellettuale possa risolvere ogni problema. Vi è tuttavia un eccesso di realismo in chi ritiene inevitabile che la stampa («l’avversario») sia reticente o faziosa. Non è scritto che il servizio pubblico debba condurre battaglie di parte, e comunque non è accettabile e va denunciato. Altrimenti perché indignarsi per le censure e la disinformazione che spesso, a ragione, gli imputiamo? E perché cercare di impedirle? Quanto alla stampa indipendente, anch’essa ha qualche problema di legittimazione, e non potrebbe rivendicare apertamente il diritto di nascondere ai propri lettori una parte significativa della verità. Tra l’ingenuità e un iperrealismo che rischia di regalare alibi alla disinformazione, preferiamo credere che il confronto delle idee comporti una sfida impegnativa per tutti. Non per caso il silenzio (quello di chi semplicemente preferisce ignorare tutta questa discussione) resta la via più comoda, anche se di certo non la più nobile.

mercoledì 25 luglio 2012

Quiproquo

Nel sito consigliato a fianco La Contraddizione al link Quiproquo è presente un interessantissimo "libello virtuale" (come viene definito nella stessa presentazione) che ha la veste di una piccola enciclopedia contenente svariate decine di voci (160 con diverse varianti).

Il lemma proposto è una variante della voce Valori.
Tutti i corsivi e i simboli presenti nel testo sono quelli originali. La freccia [<=] indica che nell'enciclopedia è presente quel lemma.
L'autore è Vladimiro Giacché [v.g.].

I valori personali - Magritte (1952)
“Dato che una religione che perdona spietatamente ha dato agli uomini la virtù come punizione per i loro vizi, gli imbecilli che governano il mondo hanno avuto l’idea di consacrare la morale come un bene di diritto. E ora la morale infuria contro l’umanità”: così Kraus. Si tratta di un giudizio che implica “valori”  [# 1, # 2,?] quali umanità, e altri concetti virtuosi quali morale [<=], diritto [<=], religione, virtù, ecc.
In cosa consiste l’inganno? Innanzitutto nel fatto di coprire, dietro il paravento di valori altisonanti ed astratti, prassi concrete mosse da ben altri (e ben più bassi) fini. L’esempio più recente è quello della “guerra umanitaria”. In questo senso i “valo­ri” (a partire dalla famigerata triade “Dio, Patria, Famiglia”) altro non sono che una mistificazione, ossia un mezzo per coprire una prassi reale che non di rado è non solo diversa, ma di segno addirittura opposto a quanto si va predicando. La saggezza popolare ha affidato a proverbi quali “predicare bene e razzolare male” la sanzione di questi comportamenti; ed esiste una folta letteratura, ad esempio, sui vizi dei monaci e dei preti, direttamente proporzionali al loro richiamo ipocrita ai valori ed alle virtù (per La Rochefoucauld “l’ipocrisia” era per l’appunto “il prezzo che il vizio paga alla virtù”: cosicché spesso alla virtù predicata finiscono per corrispondere vizi reali).
Ma l’inganno non consiste solo in questo: se così fosse, infatti, dovrem­mo ammettere che esista (o possa esistere) una prassi realmente ispirata all’“umanità”, alla “bontà”, alla “giu­stizia”, ecc. Il punto, però, è che questo è impossibile. Per il semplice motivo che – e qui sta il secondo inganno – che questi presunti “valori” assoluti (eterni, di significato univoco, validi per tutti i tempi e per tutti i luoghi) non esistono. I valori ai quali gli esseri umani ispirano la loro azione, infatti, nascono dalla concretezza della loro condizione storica, a partire dalle modalità con le quali avviene la loro riproduzione materiale; e andrà semmai ricordato che, sulla concretezza della condizione storica attuale e dei vigenti rapporti sociali, si innesta inoltre la tradizione, che rappresenta per lo più il precipitato di bisogni e relazioni sociali corrispondenti a precedenti epoche della riproduzione materiale.
“Valori” allo stato puro, insomma, non esistono da nessuna parte: i valori sono in perenne mutamento ed evoluzione – oltreché, sempre più spesso, in contraddizione tra loro anche nella stessa persona (così, la stessa persona può essere solidale nei confronti dei parenti più stretti e terribilmente egoista nei rapporti di lavoro: ma anche questo non si deve a un qualche astratto e fatale “politei­smo dei valori”, ma alle concrete condizioni di vita ed alla diversità e contraddittorietà dei ruoli sociali che convivono in una stessa persona).
Il mutamento e l’evoluzione dei va­lori, così come il loro contraddittorio presentarsi, sono funzione della vita materiale degli uomini e degli interessi che in essa si manifestano e si scontrano. Già, perché questi interessi non sono comuni a tutti: l’inte­resse dei lavoratori non coincide – non può coincidere – con l’interesse dei padroni. E quindi i valori degli uni non coincidono – non possono coincidere – con i valori degli altri. Ma, si dirà, e l’interesse alla conservazione della vita della specie e della stessa vita sul pianeta – oggi essi stessi minacciati dal “valore” del capitale [<=] (ossia dall’incoercibile tendenza del capitale a valorizzarsi, ad accrescere la propria massa a scapito di tutto e di tutti)? Non dovrebbero, questi interessi, accomunare tutti? Nei fatti vediamo che così non è: vediamo che la riduzione dei gas inquinanti (provatamente letali per il pianeta) viene impedita; vediamo che l’energia atomica viene riproposta come necessaria, perché “l’economia non può fermarsi” [Il Sole 24 Ore, 8 maggio 2001]. Questo perché la classe [<=] capitalistica, la classe che incarna la tendenza del capitale ad autovalorizzarsi, concepisce questa tendenza come il “valore” supremo. E oggi riesce addirittura a convincere le classi subalterne che questo “valore” è anche il loro valore, che i suoi interessi di classe sono anche i loro interessi di classe. Ovviamente, questo ragionamento può essere e deve essere rovesciato: sono gli interessi delle classi subalterne ad esprimere gli interessi del­l’umanità, a cominciare dal fatto che solo il perseguimento e la vittoria degli interessi delle classi subalterne appare in grado (oggi più che mai) di impedire “la comune rovina delle classi in lotta”. Non però nel senso – lo ripetiamo – che gli interessi delle diverse classi immediatamente coincidano: semplicemente, l’abolizione dello sfruttamento e della proprietà [<=] privata dei mezzi di produzione è la condizione necessaria per evitare la rovina comune. In tutto questo, i valori dove restano?
I valori restano ... indietro. Nel senso che tengono dietro agli interessi (di classe) e da essi sono plasmati, guidati, utilizzati. Dobbiamo, insomma, operare una sorta di rovesciamento, per rimettere nel giusto ordine le immagini capovolte dalla camera oscura dell’ideologia. I valori (storicamente e socialmente determinati) sono il mezzo, gli interessi (socialmente e storicamente determinati) rappresentano il fine dell’azione sociale. Si noti bene: questa natura di mezzo dei valori riguarda anche quello che probabilmente è l’unico “valore” correttamente attribuibile alle classi subalterne nella loro lotta per l’emancipazione: il valore della “solidarietà”. Che nell’accezione autentica del movimento operaio comunista non ha nulla a che fare con la “solidarietà” di cui parla il cosiddetto pensiero sociale della Chiesa (ossia il solidarismo, la caritatevole mano tesa verso “i deboli”, verso “chi resta indietro” ecc.): la “solidarietà”, dicono le parole di una delle più belle canzoni del movimento comunista [il Canto della solidarietà di Brecht-Eisler], è invece semplicemente ciò “in cui risiede la nostra forza”, ossia l’unione fra eguali per conseguire un obiettivo comune.
Se questo è vero, è chiaro che la fuga nei valori, il riferimento sempre più ossessivo ed inflazionato ai valori, culminato nel nostro Paese nella presentazione alle ultime elezioni addirittura di una lista denominata “l’I­talia dei Valori”, rappresenta un aspetto fortemente regressivo dell’at­tuale situazione sociale e politica. Per diversi motivi.
1) Perché rappresenta un’accetta­zione del rovesciamento della gerarchia reale tra bisogni/interessi e valori: se questi ultimi altro non sono, nella realtà, che modi di concepire e di conseguire quegli interessi, il rovesciamento ideologico li ipostatizza e ne fa degli “apriori” assoluti.
2) Perché rappresenta una fuga nel­l’astrattezza di valori (assoluti, astorici, universali) che hanno perduto (in questa visione mistificata) ogni concreto referente reale, nella prassi delle relazioni e dei conflitti sociali.  
In questa dimensione mistificata – nella migliore delle ipotesi (ossia nel caso che essa non sia frutto di malafede) – ci si muove in tondo: ricevendo conferma della propria bontà (ad esempio nei confronti delle popolazioni del cosiddetto Terzo Mondo, concepite come “gli ultimi”, “i deboli”, “i bisognosi” – e non, come sarebbe giusto, come popoli sfruttati da ben individuabili meccanismi economici, in conformità a ben precisi interessi di classe) proprio dalle proprie sconfitte e dall’inevitabile inanità dei propri sforzi.
3) Perché rappresenta un ulteriore gradino nella scala discendente che dalla coscienza di classe [<=] e dalla solidarietà praticata (sovente in maniera spontanea) tra i lavoratori aveva condotto all’ipostasi della “missione del proletariato”. Ed effettivamente, dal­la missione all’apostolato, e da questo alle opere di carità il passo non è affatto lungo ... Per dirla nei termini del (desolante) dibattito a-sinistra, questo e non altro è il significato del­la transizione dal “militante-missio­nario” al “volontario” (dove il minimo che si possa dire è che il rimedio è assai peggiore del male ...).
Rispetto alle elucubrazioni di questi teologi di ritorno, ben altra lucidità è dato riscontrare, come è ovvio, tra i funzionari del capitale: che sono addirittura in grado di liquidare il tema dei valori in due battute.
Come faceva, in un recente articolo dedicato ai “fondi etici di investimento”, la “responsabile del bilancio socio-ambientale” [sic!] di una delle principali società italiane: ossia dichiarando che “non si può creare va­lore senza valori” [Il Sole 24 Ore, 7 maggio 2001].
I valori sono indispensabili ... in quanto servono all’autovalorizzazio­ne del capitale. Che, come volevasi dimostrare, è il Valore supremo. E in questo caso – ma solo in questo – la maiuscola ci sta proprio bene. Anche l’analisi del linguaggio [<=] ci permette di ripercorrere nelle parole la direzione del movimento reale. Già Marx ricordava – nelle  sue Glosse a Wagner – che il termine di “valore” (Wert) in origine designava le “cose utili” intese come “valori d’uso”. L’i­deo­logo pragmatista americano William James, un secolo fa, parlava di “valore in contanti” delle idee, oggi possiamo parlarne anche per la Morale e Dio, da cercare sulla pagina delle quotazioni di borsa.
[v.g.]

lunedì 23 luglio 2012

Destra, sinistra. Centro? Boh?


Destra e sinistra, centro, centristi, moderati e meno moderati (come se esistessero reali differenze) si accapigliano, schiere sparpagliate e sbandate di movimentisti grillini o papagallini si azzuffano ostentando e sbandierando soluzioni e medicine per guarire le ferite della belva economica del capitale e politica delle borghesie.

Patetici fantocci mossi dal comando capitalista litigano (o fanno finta?) per decretare elezioni anticipate, che tutti temono. E mica solo in Italia!
La Spagna non ha preferito Rajoy a Zapatero? Contenti di non avere più la tredicesima, sull'orlo del default, come se col "campione" socialista non sarebbe stata la stessa musica, tirano avanti. Non parliamo della Grecia e di tutto il resto.

Appunto! Tutto il resto! Perché è proprio tutto il resto che conta assieme all'una e all'altra cosa. Ma tanto chi dovrebbe capire non capisce. L'illusione è giunta ad agire tanto profondamente da rendere reali differenze che non esistono. E se qualcuno crede a qualcosa, pur se quel qualcosa non esiste, lo rende reale. Forze, invece, "veramente" reali stanno dissipando false credenze e una maggioranza silenziosa comincia a mettere in dubbio la "realtà" dell'illusione. La questione è che la "questione" non è politica, sarebbe assai facile, in effetti. Basterebbe votare un aborto di partito, ma che fosse quello giusto, e tutto andrebbe a posto.

Ovviamente non è così. Nemmeno con quella specie di colpo di stato che ha sostituito ad un satrapo un tecno-dirigente con perversioni finanziarie invece che sessuali si è riusciti a risollevare un sistema statale ed economico ormai frantumato a tal punto che nessuno può e non potrà mai rimettere assieme.
Appunto! Perché la questione non è politica e nemmeno tecnica, se così si può dire. E' l'intero sistema che è franato. Qualcuno pensa che una montagna franata si riuscirebbe a riportare allo stato originario? OK, benissimo. Tutto bene. Andate a votare per il parlamento democratico.

Di seguito un estratto dell'introduzione a Oltre l'austerità scaricabile gratuitamente su MicroMega
Perché proprio questo?
Forse per leggere qualcosa?

Questo volume, generosamente ospitato da MicroMega on line, raccoglie una serie
di contributi sulla crisi economica in Europa. Essi sono, in parte, l’espressione di punti di
vista diversi sia sulle origini e sull’evoluzione della crisi che il nostro continente sta
attraversando, che con riguardo alle implicazioni economiche delle possibili vie d'uscita.
Più che le differenze, è tuttavia importante l’elemento che accomuna gli autori dei
contributi, e cioè l’obiettivo di presentare un’analisi della crisi economica in Europa che sia
libera dagli stereotipi e dai pregiudizi della cultura neo-liberista dominante; quella cultura
che – ispirando le politiche di austerità prescritte dalla Commissione europea, dalla Banca
centrale europea e dal Fondo monetario internazionale – sta precipitando il nostro
continente nella recessione e, di più, sta minando alla base lo stesso « modello sociale
europeo », cioè una delle esperienze più avanzate di convivenza civile che la storia del
mondo ha conosciuto.


I contributi sono stati scritti cercando, per quanto possibile, di mantenere uno stile
accessibile ad un numero ampio di lettori. Naturalmente il volume è rivolto anche ad
associazioni, sindacati e partiti che siano sinceramente disponibili a un ripensamento
critico della deriva liberista della sinistra italiana (ma non solo), a cominciare
dall’identificazione tout court del proprio progetto politico con l’unificazione monetaria
europea. E si rivolge a quella parte della sinistra che, pur essendosi verbalmente opposta a
tale deriva, non si è fatta promotrice, per superficialità o per opportunismo, della
costruzione di un progetto politico-economico seriamente alternativo. La sinistra italiana
ha purtroppo sempre teso a privilegiare il calcolo politico a breve termine all’analisi e alla
proposta economica, finendo sistematicamente preda del pensiero economico dominante,
ai cui cultori ha finito con l’affidarsi. Eroi della sinistra, anche di quella radicale, sono così
di volta in volta diventati i Ciampi, gli Andreatta, i Padoa-Schioppa – figure degnissime,
ma completamente estranee alla tradizione del riformismo socialista.


Nel licenziare questa raccolta di saggi economici, desideriamo dunque indicare
come passaggio necessario per la sinistra quello dell’assunzione, nel suo nucleo costitutivo
e caratterizzante, di un vero pensiero economico critico, premessa indispensabile di una
lettura consapevole dei processi in atto e delle strategie perseguibili.



Indice

Introduzione 6
S. Cesaratto e M. Pivetti

1. Le politiche economiche dell’austerità
L’austerità, gli interessi nazionali e la rimozione dello Stato 11
M. Pivetti
Molto rigore per nulla 19
G. De Vivo

2. La crisi europea come crisi di bilancia dei pagamenti e il ruolo della Germania
Il vecchio e il nuovo della crisi europea 26
S. Cesaratto
Le aporie del più Europa 44
A. Bagnai
Deutschland, Deutschland…Über Alles 55
M. d’Angelillo e L. Paggi

3. Austerità, BCE e il peggioramento dei conti pubblici
Sulla natura e sugli effetti del debito pubblico 71
R. Ciccone
La crisi dell’euro: invertire la rotta o abbandonare la nave? 89
G. Zezza
Oltre l’austerità 4 MicroMega
Le illusioni del Keynesismo antistatalista 104
A. Barba
La crisi economica e il ruolo della BCE 111
V. Maffeo

4. Austerità, salari e stato sociale
Quale spesa pubblica 122
A. Palumbo
Crescita e “riforma” del mercato del lavoro 133
A. Stirati
Politiche recessive e servizi universali: il caso della sanità 145
S. Gabriele
Spread: l’educazione dei greci 160
M. De Leo

5. Oltre l’euro dell’austerità
Un passo indietro? L’euro e la crisi del debito 172
S. Levrero
Una breve nota sul programma di F. Hollande e la sinistra francese 185
M. Lucii e F. Roà


lunedì 9 luglio 2012

Economie senza mercato: richiamo alla riflessione

Ho preso in considerazione in questo post Mutualismo? Autogestione? alcune questioni inerenti alle cosiddette "economie senza mercato" e più in generale quell'agire alternativo che alcuni movimenti anticapitalisti intenderebbero propugnare. Ho tentato di mostrare l'inconsistenza economica di tali pratiche, ma senza per questo giudicarne il valore sotto il profilo della scelta personale, che eticamente mi sento di rispettare. Questo breve articolo, sempre tratto dalla rivista n+1, mi pare un buon epilogo a quel post e vi invito a leggerlo a mo' di richiamo alla riflessione.



Vivere senza denaro


Di fronte ai sempre più frequenti tentativi di fuga dal capitalismo ci sono reazioni diverse. I giornalisti sono attirati da un atteggiamento che "fa notizia": sembra impensabile eliminare il denaro nella società attuale. I falsi alternativi, tra i quali sono compresi alcuni degli stessi giornalisti, i blogger e gestori di siti internettiani di varia umanità, la mettono sull'etica individuale: com'è coraggiosa la scelta, come dev'essere difficile abbandonare le vecchie abitudini, abbasso il consumismo, ecc. I marxisti (ormai senza virgolette) fingono di essere alternativi autentici e sentenziano: "Attualmente i socialisti non vogliono abolire il denaro. Ciò che vogliono è veder instaurato un sistema sociale dove il denaro sia superfluo, come dev'essere in una società basata sulla proprietà comune e sul controllo democratico dei mezzi di produzione". Citiamo la lezioncina da un sito inglese, ma potrebbe benissimo essere un sinistro nostrano.

La genesi dei gruppi odierni dediti al baratto è incerta. Esistono da molti anni le "banche del tempo", dove però vige il computo del valore in ore di lavoro; sono numerose anche piccole comunità nate per scambiare beni o servizi con il solo criterio del valore d'uso; si diffondono anche gruppi dediti al sottoconsumo volontario. Invece l'esigenza di vivere senza denaro è recente. La ricerca sulle sue origini porta a un solo fatto specifico: la solidarietà fra lavoratori disoccupati rimasti senza salario in seguito alla chiusura di una fabbrica in Canada, solidarietà che ha finito per coinvolgere gli abitanti di un'intera cittadina. All'origine quindi non vi è una pensata utopistica ma un pragmatico bisogno di risolvere problemi concreti. Questo pragmatismo comunitario è abbastanza diffuso in Nordamerica e noi ne seguiamo gli sviluppi come facciamo per altri fenomeni generati dal capitalismo.

Sta di fatto che alcuni gruppi di persone decidono di rinunciare al denaro, anzi, di rifiutarlo in quanto inutile, e di vivere senza lavorare per salario o parcella, in modo da rendere evidente questa non necessità. Insomma, c'è qualcuno al mondo che invece di adorare il dio del capitalismo lo trova repellente e cerca in tutti i modi di schivarlo immaginando un mondo diverso. Facendo tra l'altro una fatica notevole, perché la cosa non è semplice. Ovviamente questi gruppi non riescono né a vivere completamente senza denaro né a dimostrare di conseguenza che il denaro stesso non è necessario. Chi volesse criticare questa "scelta di vita" troverebbe appigli a bizzeffe e curiosamente c'è chi s'incarica di cercarli.

Coloro che si dedicano alla vita senza denaro sanno benissimo che ogni oggetto barattato è stato prodotto e venduto per denaro in quanto merce. Quindi sanno che possono soltanto dar vita a isole entro un mondo che continua a funzionare come al solito. Del resto i rapporti col denaro rimangono strettissimi: se per esempio ci si deve spostare in treno non si può barattare alcunché con le ferrovie, bisogna trovare chi regali il biglietto dopo averlo comperato in cambio di qualcosa. Vivere in un camper e generare elettricità con pannelli solari presuppone una fabbrica di camper e pannelli. L'isola senza denaro non può che essere collegata col mare del denaro. Di questa contraddizione i senza-denaro però se ne fregano. Quel che a loro importa è che individualmente vogliono vivere senza denaro. C'è chi assume psicofarmaci, chi si dà allo yoga e chi adotta uno stile di vita, è un fenomeno da registrare, non da giudicare.

Merci materiali - Merci immateriali


Due brevi interventi tratti dal n. 29 della rivista n+1

Merci materiali

Al marzo 2011 la produzione industriale americana era ancora il 5% al di sotto del picco raggiunto prima della recessione. Gli economisti però sono euforici lo stesso: da molti anni non succedeva che l'andamento dell'industria fosse migliore di quello degli altri settori. Per di più, dopo la sbronza finanziaria, dietro gli istituti di credito che tengono ancora banco, fanno capolino i cosiddetti (parametri) fondamentali. Da tenere anche presente che la ripresa industriale è stata più veloce di quella del numero degli occupati, dato che è aumentata la produttività. Ma che importa, il dato va considerato positivo, i disoccupati pesano sulla società, non sull'azienda. Comunque gli occupati industriali sono cresciuti dell'1,6% mentre in generale la crescita è stata dell'1% (le cifre sulla disoccupazione americana sono sempre aleatorie: prendiamo il massimo di disoccupazione ufficiale registrato al culmine della crisi, 12,5%, quindi vuol dire che, tolto un punto, saremmo all'11,5%, il che è tanto anche per i selvaggi parametri americani).

Facendo un consuntivo, il baratro è stato raggiunto verso la metà del 2009, con un crollo che nella meccanica ha raggiunto il 40%. La risalita sarà ancora lunga, perché per molti settori quella visibile negli ultimi tempi è dovuta non a un netto miglioramento della produzione ma al rinnovamento delle scorte. Anche l'aumento delle vendite di automobili è in gran parte dovuta al logoramento del parco circolante dopo quasi quattro anni di crisi. In totale il settore ha recuperato fino al 20%. Come da manuale marxista, la parte del leone la fanno i mezzi di produzione, e non solo perché l'Oriente ne richiede, il dollaro è basso e il governo offre incentivi: ogni crisi è una occasione per aumentare la produttività e con questo essa non fa che preparare la prossima. Solo che adesso il ciclo si è cronicizzato, e fra una caduta e l'altra l'economia stenta a ritornare ai livelli precedenti.

Ciò è poco visibile perché si muove molto il capitale fittizio, ma non bisogna confondere una ripresa di borsa con una dell'economia. Il mercato è sbilanciato da un pezzo: stagnano le merci di uso comune che costituiscono i grandi numeri, compresi i beni durevoli, automobili, case, arredi, elettronica domestica e sono in ripresa le macchine utensili, i grandi veicoli, il movimento terra, i sistemi computerizzati e tutta la componentistica collegata. Si tratta di capitale costante che dovrà… pagare sé stesso tramite nuova produzione e dovrà farlo in un contesto di consumi decrescenti a causa delle modificate, pesantissime condizioni sia dell'occupazione che del credito alle famiglie. Sulla base dei dati del passato, si è calcolato che ogni aumento di un punto del PIL dei paesi partner commerciali degli USA provoca un aumento delle importazioni dagli USA di tre punti. Se fosse vero non sarebbe spiegabile il declino industriale degli Stati Uniti che, a partire dagli indici massimi di produzione e occupazione raggiunti nel 1979, non si è più arrestato. Tolto il Giappone, i maggiori partner sono cresciuti molto, specie la Cina, la quale non ha affatto aumentato le proprie importazioni dagli Usa in confronto alle esportazioni. Il fatto è che la quota di mercato estera e persino interna degli Stati Uniti si sta restringendo rispetto a quella dei sempre più aggressivi concorrenti.

Merci immateriali

Marx nella prima pagina del Capitale descrive le merci come prodotti vendibili, atti a soddisfare bisogni, non importa se fisici o dovuti alla fantasia. La distinzione fra produzione fisica e servizi era allora abbastanza netta. La quota del valore globale dovuto alla prima era determinante e anzi crescente, e nessun economista si sarebbe preoccupato di "ritornare ai fondamentali", cioè al capitale derivante da produzione e vendita di merci, materiali o immateriali che fossero.

Oggi molti economisti trovano preoccupante la continua diminuzione della produzione industriale su quella totale. Si chiedono quale possa essere il futuro di paesi i cui servizi contano per il 70 o l'80% del PIL, paesi che oltre tutto hanno pletorici servizi "non vendibili" che non producono valore ma ne consumano. Prendiamo gli Stati Uniti: negli ultimi vent'anni la popolazione è cresciuta quasi dell'1% all'anno, il che vuol dire almeno 50 milioni di persone. Nello stesso periodo gli occupati sono aumentati di 27,3 milioni, di cui 26,7 nei servizi non vendibili (istruzione e sanità pubbliche, piccolo commercio, forze armate, polizia, ecc.) e solo 0,6 milioni nell'industria e nei servizi vendibili (come finanza e assicurazioni), con guadagno di questi ultimi e perdita netta del settore manifatturiero. Ma attenzione: al calo dell'occupazione degli addetti industriali corrisponde un aumento vertiginoso del valore prodotto dagli stessi. Ci sono dei paesi come Inghilterra e Olanda che da questo punto di vista stanno anche peggio e siccome l'andamento storico è comune a tutti i paesi, sarà presto raggiunta una soglia invalicabile.

Quando intravedono un limite all'accumulazione gli economisti ne restano sconvolti, come se ciò contraddicesse una legge di natura. Vanno indietro nel tempo e si rasserenano: negli ultimi trent'anni i maggiori paesi hanno visto raddoppiare la produzione industriale, la delocalizzazione delle merci di fascia bassa è fisiologico, quelle di fascia alta continueranno ad essere prodotte qui, non c'è da preoccuparsi. In fondo alla Cina abbiamo venduto solo l'hardware della IBM, la ferramenta, e le facciamo costruire anche quella che è ancora di proprietà americana, europea o giapponese perché qui non conviene più. Qui il business del futuro è nelle merci immateriali, "bisogna finirla con il feticcio della produzione" (Jagdish Bhagwati della Columbia University), ci dobbiamo lanciare nei grandi sistemi logistici, nelle reti fisse e mobili, nella grande distribuzione a livello globale, nei brevetti, nelle biotecnologie. I registratori di cassa elettronici di Walmart sono terminali collegati alle fabbriche sparse nel mondo, ogni minuta vendita va a far parte di un immane centro ordini in tempo reale e altre aziende di logistica si preoccuperanno di collegare la rete di trasporto del materiale ordinato.

D'accordo, per il Capitale merci materiali o merci immateriali fa lo stesso, purché si vendano. Solo che la produzione di merci immateriali non produce a sua volta fabbriche, impianti, mezzi di produzione in quantità conseguente. Questo vuol forse dire che ci sarà una divisione del lavoro a livello planetario e tutto filerà liscio? Un momento: abbiamo visto che il fenomeno coinvolge tutti i paesi, quindi tutti arriveranno a toccare il limite che tanto spaventava gli economisti. E una divisione del lavoro a livello intergalattico non c'è ancora.

lunedì 2 luglio 2012

Una noticina a Il diritto al lavoro non esiste di Massimo Fini


Ho letto (per disgrazia) l’articoletto di Massimo Fini Il diritto al lavoro non esiste avendolo trovato linkato su FB da una persona inserita nella cerchia delle mie amicizie. Inizialmente ho pensato che non valesse la pena fare osservazioni ad una tale asinata, ma riflettendo sulla potenza di propagazione degli attuali mezzi di comunicazione di massa ho cambiato idea. Lo so, non sono né Massimo Fini né il mio profilo FB conta migliaia di amicizie, anzi il contrario, e so che saranno poche decine (spero almeno in quelle) le persone che leggeranno questa nota, ma sento comunque la necessità di manifestare il mio personale disappunto a quelle affermazioni, anche se con un fastidioso senso di impotenza dovuto alle mie scarsissime capacità di marketing virale.

Ho letto, questa mattina stessa, lunedì 2 luglio 2012, la risposta di Pierfranco Pellizzetti Il Lavoro è diritti, non schiavitù all’articolo di Massimo Fini su Il fatto quotidiano e siccome la risposta, pur rispettandola, non mi pare convincente, la cosa ha rafforzato in me la necessità di allontanare quel senso di disagio provocato dalla suddetta asinata.
1866 - Nevrev N.V. Baratto. Episodio di vita quotidiana dei servi della gleba.
Intanto quel che mi ha procurato maggiore malessere è proprio l’esordio dell’articolo di Fini “Elsa Fornero ha perfettamente ragione” questa è la parte peggiore di tutto l’articolo. Avevo già commentato, tra l’altro, l’insulsaggine della ministra Fornero in un mio blog (http://samagamael.tumblr.com/).  Massimo Fini avrebbe potuto sostenere il proprio punto di vista in altro modo. La scelta di argomentare un ragionamento presenta numerosissime alternative. Se uno scrittore come Massimo Fini sceglie esattamente questo esordio è perché gioca abbastanza sporco, e non credo che una scelta di questo tipo sia stata frettolosa e casuale. Ma passiamo oltre.

Tutta la falsità della tesi finiana è contenuta in una “consapevole”, a mio avviso, confusione che ha la caratteristica di una fallacia. Vediamo. Fini non distingue di quali diritti in senso giuridico si stia trattando e pare voler far credere che il diritto al lavoro in questione sia ritenuto da coloro che lo sostengono un diritto naturale. Vorrei ricordare, anche se ciò provocherà antipatia perché sembra peccare di presunzione, che i diritti sanciti dall’ordinamento giuridico sono il risultato di un rapporto di forze e non un fatto naturale come la pioggia o il vento, personalmente ero convinto che il giusnaturalismo fosse oramai tramontato da tempo, ma evidentemente non è così, oppure si mente sapendo di mentire.

Certo nessuno può garantire la felicità o la salute, ma i sistemi sociali, politici ecc. ecc. possono creare le condizioni migliori per la loro realizzazione, per esempio. Sono personalmente convinto, forse ancor più di Massimo Fini, che il lavoro è una pena, anzi addirittura una piaga, e che siamo oramai ad un tale livello tecnico scientifico che potremmo lavorare tutti molto meno anche con livelli retributivi molto più alti. Certissimo! Le macchine potrebbero sollevarci dalla condanna disumana dello stress e dall’affaticamento e potremmo vivere più felici e con maggior benessere sanitario “appunto in tal modo…di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico.” [K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma, 1972, pag. 24]

Come vede signor Massimo Fini sono ancor più convinto di lei che mio figlio di 24 anni potrebbe fare a meno di lavorare in un call center per 350€ al mese. Di più!! Potrebbe sentirsi realizzato se potesse cambiare quando gli va e trovare l’attività che, essendo non un lavoro, ma un’occupazione creativa, lo facesse sentire vivo, utile e raggiante! Il ché mi riempirebbe l’animo di gioia. Si figuri: pensa che per me non sarebbe il più bel dono della vita?
Ma c’è un ma. Eh si signor Fini, e tutti coloro che hanno apprezzato l’asinata, il problema è che mio figlio, e pure io, pure la mia collega della scrivania a fianco, e pure la persona che ho visto passare prima per strada, non si sono scelti questo stato di cose. Se potessero scegliere probabilmente non sottoscriverebbero un “contratto sociale” alla Rousseau (una delle grandi idiozie storiche) dove si è costretti ad arricchire pochi sfruttatori che decidono quali sono i diritti degli altri (quando possono farlo, ovviamente, perché non ci si deve dimenticare dei rapporti di forza). Ferma restando l'esistenza dei "servi volontari" di boetiana memoria

E dunque, permettetemi di autoproclamarmi portavoce dei molti altri che la pensano come me, mentre siamo nell’attesa di abbattere il sistema del capitale e permettere alle forze produttive (la scienza, la tecnica e la loro applicazione al processo lavorativo, e quindi all’organizzazione del lavoro) di realizzare quel fantastico mondo, di cui il signor Fini si è fatto portavoce, “da vivere “qui e ora” e non con l’ansia della “partita doppia” del mercante che disegna ipotetiche strategie sul futuro. [dove] Questa disposizione psicologica verso il lavoro era determinata dal fatto che in epoca preindustriale…non esisteva la disoccupazione. Per la semplice ragione che ognuno, artigiano o contadino che fosse, viveva sul suo e del suo. E non doveva andare a pietire un’occupazione qualsiasi da quella bestia moderna chiamata imprenditore.”, mentre viviamo quell’attesa, come dicevo, per non dover andare a pietire il nostro carnefice lasciateci pretendere che quello schifo di “lavoro” sia un diritto perché, purtroppo, “appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere;” [Marx op. cit.].

sabato 30 giugno 2012

L'internazionale periodico


Con piacere farò seguire da oggi alcuni interventi de "l'internazionale" periodico comunista del Circolo Operaio Comunista di Livorno che aderisce all'Unione Comunista Internazionalista.
Di seguito il documento politico della conferenza 2011, particolarmente interessante letto dopo più di un anno.


Non solo contro Berlusconi: la necessità di una politica operaia nella crisi del capitalismo

Questo testo è il documento politico adottato dalla nostra conferenza d’organizzazione di febbraio 2011.

La crisi non è alle spalle

Sulla scorta delle cifre fornite dai vari centri di analisi economica, fino a pochi giorni fa i giornali erano pieni di commenti a tinte rosa sull’andamento dell’economia mondiale. “Questa è la volta buona, questa volta siamo veramente fuori dalla crisi”, tale, più o meno, era il tenore dei giudizi degli esponenti delle banche, dei ministeri economici, delle associazioni imprenditoriali, per non parlare degli organismi internazionali come il Fondo Monetario Internazionale o l’OCSE. In Italia si riconosceva la persistenza di maggiori “difficoltà” ma si confidava di agganciarsi a questo ingranaggio messosi di nuovo in movimento. Poi l’entusiasmo si è andato stemperando man mano che le rivolte dei popoli nordafricani si allargavano e il conflitto con l’ordine costituito si approfondiva.

Da fatto marginale della politica internazionale, su cui magari versare qualche lacrimuccia per le vite umane sacrificate, la ribellione popolare passava ad essere trattata come un evento cruciale non solo dello scacchiere politico ma anche degli interessi economici dei paesi più sviluppati, non fosse che per le risorse energetiche di quella regione, gas e petrolio, da cui dipende per buona parte l’approvvigionamento europeo. L’atteggiamento delle maggiori potenze, storiche sostenitrici di tutti i più spietati regimi dittatoriali della regione, si è adattato alle nuove circostanze. La diplomazia occidentale ha così “scoperto” che Mubarak, Ben Ali o Gheddafi, sono dei sanguinari dittatori, dimenticandosi quanto il suo sostegno sia stato determinante nel mantenerli al potere per tanti anni. L’Italia non è certo stata a guardare gli intrighi degli altri. Tutti ricordano le pagliacciate che accompagnarono la visita ufficiale di Gheddafi con il baciamano nei suoi confronti da parte di Berlusconi. La propensione del premier per le carnevalate è nota, così come la sua ammirazione per i dittatori, del resto pubblicamente esternata, spesso in loro presenza, ma la sostanza dei rapporti con quel regime si è basata per molto tempo sul peso che, negli anni e sotto tutti i governi, il capitalismo italiano aveva conquistato nel rapporto con il capitalismo libico fino a divenirne il principale partner economico. L’Eni ha svolto e svolge tuttora il ruolo di perno della politica estera italiana in Africa, Medio Oriente e paesi dell’ex Unione Sovietica. Lo stesso ruolo giocato a suo tempo nel mettere al potere Ben Ali in Tunisia nel novembre del 1987.

La crisi economica e i rialzi speculativi degli alimentari, come i cereali, hanno sicuramente pesato in modo determinante sull’esplosione delle rivolte nei paesi del Maghreb, e queste ribellioni, per il loro esito ancora incerto, sembrano accumulare nuovi fattori di crisi. In un accreditato organo del capitale finanziario come il Wall Street Journal, lo scorso 20 febbraio si poteva leggere: “Non sorprende la rabbia del popolo egiziano: il paese è uno dei più vulnerabili all’aumento dei prezzi alimentari. Il cibo costituisce oltre il 40% della spesa per consumi, uno dei più alti livelli tra i paesi emergenti. Lo stesso è vero per Tunisia, Algeria e Marocco”. Negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Giappone, per avere un termine di confronto, la spesa alimentare pesa rispettivamente per il 7,2%, per l’8,7% e per il 14,3%.

Presentati con asettico distacco dagli organi della finanza mondiale, i listini delle materie prime, fra cui, appunto, gli alimentari, segnalavano da tempo non solo l’occasione di straordinari profitti per gli speculatori ma anche l’allargarsi insostenibile della miseria più profonda per milioni di persone. L’economia non è fatta solo di numeri e di scommesse sul rialzo dei titoli: essa è fatta del lavoro umano e agisce in un contesto sociale, fatto di persone in carne e ossa. Il presidente della Banca Mondiale, Robert Zoellick, ha detto di recente che l’aumento delle quotazioni agricole “costringerà alla fame un miliardo di persone nel mondo”. Ripresa dell’economia mondiale è significato, fino ad oggi, soprattutto ripresa dell’economia finanziaria e quindi ripresa della speculazione, ovvero profitti che le banche e i grandi gruppi finanziari intendono continuare a fare anche a costo di affamare intere popolazioni. La crisi politica del Maghreb, stando così le cose, è solo l’inizio. Noi non possiamo che augurarci che la classe operaia nordafricana, per il momento ancora forza ausiliaria, accumuli, nelle lotte di questi giorni, sufficiente esperienza per divenirne una protagonista indipendente, con i propri obiettivi e con i propri organi politici.

Anche senza tenere di conto della crisi politica che sembra allargarsi a tutto il mondo arabo, una nuova pesante ipoteca sul futuro dell’economia mondiale è stata posta dallo sviluppo del debito pubblico delle maggiori potenze economiche. La paura di veri e propri fallimenti degli stati, ha spinto i governi europei a dar vita ad una specie di fondo di sostegno che dovrebbe fungere da prestatore di ultima istanza, fornendo una garanzia per le banche centrali e per il sistema finanziario dei singoli paesi. Non c’è, come si può intuire, nessuna motivazione solidaristica dietro a questa decisione, c’è piuttosto la paura che il fallimento di uno stato, che già è stato sfiorato in Grecia, trascini con se l’intera catena delle connessioni finanziarie il cui controllo è nelle mani delle grandi potenze. Ma non è detto che la cura sia migliore del male e che la sensazione di poter lucrare in tutta sicurezza sui titoli del debito pubblico non spinga i grandi speculatori, dietro ai quali ci sono semplicemente le grandi banche, a far maturare un’altra bolla finanziaria e un’altra drammatica crisi del sistema creditizio. Intanto, di comune accordo, tutti i governi preparano una nuova “cura da cavallo” che comporterà ulteriori sforbiciate sui servizi pubblici e sui sistemi pensionistici.

L’Italia meglio degli altri?

In Italia, in ogni caso, anche prima che i paesi del Nord Africa esplodessero e che si affacciasse lo spettro del “debito sovrano”, la maggior parte della popolazione non aveva nessun motivo di ritenersi “fuori dalla crisi”.

La disoccupazione è al vertice delle paure. E si può capire, nonostante i portavoce del governo Berlusconi ripetano in ogni occasione che grazie a loro l’Italia è stata meno colpita dagli effetti sociali della crisi rispetto ad altri paesi. A ottobre 2010 il rapporto dell’ISTAT stimava all’8,7% il tasso di disoccupazione nazionale. La cifra totale delle persone senza lavoro raggiunge e supera i due milioni, la metà dei quali cercano lavoro da più di un anno. Si tratta del dato più alto dal gennaio 2004. Nonostante il Ministro del Lavoro Sacconi continui a negare l’evidenza, i dati della disoccupazione giovanile sono ancora più allarmanti. La percentuale dei senza lavoro tra i giovani oscilla tra un quarto e quasi un terzo. I giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano sono, secondo l’ISTAT , più di due milioni.

Il dato reale della disoccupazione è quindi verosimilmente diverso e più alto del dato ufficiale. A ingrossare le fila dei disoccupati hanno contribuito i precari espulsi dall’insegnamento all’inizio dell’anno scolastico e, dall’inizio di quest’anno, anche quelli del pubblico impiego a cui non verrà rinnovato il contratto. Infatti, oltre a bloccare fino al 2013 il rinnovo dei contratti e le retribuzioni dei dipendenti pubblici, la manovra finanziaria del governo Berlusconi prevede “di avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni nei limiti del 50% della spesa sostenuta per le stesse finalità nel 2009”. Il che significa, secondo i calcoli della Cgil, 75-80.000 precari a casa nel 2011, molti dei quali erano al lavoro da anni.

Il quadro della disoccupazione non è completo se non si considerano anche i lavoratori in cassa integrazione. Si parla di 650.000 operai e impiegati, molti dei quali di fabbriche per cui la ripresa potrebbe non arrivare mai. Sono molte le aziende che non riaprono dopo le 52 settimane di cassa integrazione ordinaria. Malgrado la proroga a tutto il 2011 della cassa in deroga, in un tempo relativamente breve saranno sempre di più i lavoratori disoccupati senza coperture.

L’incertezza del futuro e il crollo dei redditi per cassa integrazione e disoccupazione contraggono brutalmente il tenore di vita delle famiglie dei lavoratori. Secondo una ricerca pubblicata dall’ISTAT, più del 30% delle famiglie vive oramai in uno stato di emergenza continua: il 16,5% sono indebitate per motivi diversi dal mutuo per la casa (erano 14,8% l’anno prima), il 12,4% (l’anno precedente erano il 10,5%) di queste non riesce a far fronte alle rate del debito. Crescono anche le famiglie che nel corso dell’anno, almeno una volta, non hanno avuto i soldi per acquistare cibo, passando dal 4,4 al 5,3%. Cresce la povertà, in poche parole, e cresce anche quando, qua e là, gli analisti economici trovano gli indicatori di una ripresa già in corso. Nel corso dell’ultimo anno, ad ogni modo, l’argomento “crisi” è servito per inasprire le condizioni generali della classe lavoratrice. In pochi mesi abbiamo assistito ad una serie di attacchi precisi e molto pesanti. Abbiamo avuto l’ennesima e sicuramente non ultima riforma delle pensioni, che posticipa il diritto ad andare in pensione di un anno per chi ne aveva già maturato i requisiti, per le donne del Pubblico Impiego che non abbiano raggiunto i quaranta anni di contributi il diritto alla pensione scatta a 65 anni e non più a 60. Il cosiddetto “collegato lavoro”, poi, ha modificato il quadro normativo del contenzioso tra lavoratore e impresa, indebolendo la posizione dei lavoratori anche di fronte a gravi abusi dei datori di lavoro e consegnando di fatto il giudizio all’arbitrato privato. Per quanto riguarda la contrattazione collettiva, inoltre,per tutto il Pubblico Impiego i contratti sono bloccati fino al 2013 mentre la Federmeccanica ha disdetto unilateralmente il contratto dei metalmeccanici siglato nel 2008. Nel settore specifico dell’automobile sono arrivati gli attacchi più duri, quelli orchestrati da Marchionne contro gli operai, prima a Pomigliano d’Arco e poi a Mirafiori.

Come dovrebbero difendersi i lavoratori?

Se i lavoratori fanno proprio il punto di partenza di tutti i ragionamenti padronali, è inevitabile che le conclusioni che tirano non li portino troppo distanti da questi. La borghesia assegna ai lavoratori il ruolo di truppa, sempre disponibile a farsi macellare, magari con entusiasmo patriottico, nella lotta tra vari gruppi capitalistici per mantenere e aumentare i propri profitti. L’economia è “loro”, il mondo è “loro”. Quando dicono che bisogna impegnarsi a far risalire la china all’Italia intendono che bisogna che i lavoratori si sacrifichino per mantenere a loro lo stesso livello di privilegi, anche in periodo di crisi. L’operaio e l’impiegato, il tecnico e l’addetto alle pulizie, fanno tutti parte di un esercito di subordinati la cui sopravvivenza è affidata alla loro utilità nella grande macchina del profitto capitalistico. “Che cos’è il proletariato?”- si domandava Engels in un testo di metà ‘800- “il proletariato è quella classe della società, che trae il suo sostentamento soltanto e unicamente dalla vendita del proprio lavoro e non dal profitto di un capitale qualsiasi; benessere e guai, vita e morte, l’esistenza intera della quale dipende dalla domanda di lavoro, cioè dall’alternarsi dei periodi d’affari buoni e cattivi, dalle oscillazioni d’una concorrenza sfrenata. Il proletariato o classe dei proletari è in una parola la classe lavoratrice del secolo decimo nono”. Non è questa, nel ventunesimo secolo, la condizione precaria, senza certezze, senza stabilità, che i politici e gli economisti al servizio del gran capitale ci presentano come moderna?

Come si sfugge a questa morsa? Con la lotta, certo. Ma la crisi, e perfino la “ripresa”, vera o presunta che sia, hanno talmente aumentato, come si è visto, il numero di quanti hanno perso il lavoro e di quanti non possono sperare di averne uno decente, oltre ad aggravare le condizioni salariali e normative di chi ancora ha un posto, che la lotta, per avere speranza di successo, non può che essere generale, di tutti i lavoratori. E’ inevitabile quindi che divenga una lotta politica, perché se non si tratta più di una vertenza di fabbrica o di categoria ma del tentativo di affermare gli interessi di un’intera classe sociale, il che, in pratica, significa conquistare una fetta più larga della torta della ricchezza nazionale a discapito dei profitti e delle rendite questo tentativo si scontra contro la resistenza delle classi privilegiate, in primo luogo della grande borghesia, delle banche, dei vari gruppi finanziari e industriali. Tutta questa gente dispone non solo del potere politico, ma anche di un poderoso e capillare apparato di propaganda. È chiaro, allora, che serve un significativo mutamento dei rapporti di forza nella società a favore della classe lavoratrice.

Lo sviluppo logico delle necessità di una difesa efficace delle condizioni dei lavoratori nel loro insieme ci porta quindi alla necessità di una politica operaia e di una forza organizzata capace di sostenerla.

Quale politica ci serve?

Sappiamo benissimo che se una cosa è logica e giusta non è affatto garantito che si realizzi da sé. I condizionamenti che frenano o addirittura paralizzano l’insieme dei lavoratori, che impediscono loro di agire come un tutto unico per difendere gli interessi che li accomunano sono molti. Alcuni sono oggettivi e sono, come abbiamo visto, riconducibili alla paura della disoccupazione, altri sono politici o ideologici. La classe dei lavoratori salariati potrà difendere i propri interessi d’insieme solo se saprà sviluppare una propria azione politica. Normalmente, invece, tutta la scena delle lotte politiche è occupata dai partiti della borghesia. I lavoratori sono chiamati a sostenere questo o quel partito, questo o quel candidato, nessuno dei quali osa mettere in discussione il dominio del capitale sull’economia e sulla società. Se prendiamo in esame gli appelli o le dichiarazioni pubbliche degli esponenti del centrosinistra, vediamo chiaramente che a Berlusconi e al suo governo si imputa, in fin dei conti, di non essere in grado di corrispondere, con la necessaria efficienza alle esigenze del capitalismo italiano. Nel linguaggio edulcorato della politica ufficiale si parla di “economia”, senza aggettivi, ma la realtà è quella di una economia capitalista che si contrappone agli interessi dei lavoratori e, in ultima istanza, a quelli di tutta la società. È ben vero che il tasso di prepotenza, di illegalità, di corruzione e di menzogne raggiunti dalla politica del centrodestra, conditi con le smargiassate e le provocazioni del piccolo Bonaparte di Arcore, si sono guadagnati il disprezzo di un numero sempre maggiore di cittadini, ma il nodo politico per la classe lavoratrice non è la sostituzione di una coalizione di governo con un’altra ugualmente, o forse ancora di più, legata al grande capitale. Il vero problema di oggi è l’affermazione di un rapporto di forze favorevole nell’ambito dei rapporti economici, nell’ambito della produzione e della distribuzione della ricchezza sociale.

Per agire come un soggetto politico indipendente la classe lavoratrice deve opporre un proprio programma a quello delle classi dirigenti. Questo programma non è una serie di punti o di rivendicazioni inventati a tavolino ma è qualcosa che scaturisce dalla stessa situazione economica, dalla stessa realtà della crisi e dalle sue conseguenze sui lavoratori. Come militanti comunisti rivoluzionari ci sforziamo di scorgere nei caratteri della crisi, nei colpi che assesta alle condizioni della classe lavoratrice, le misure necessarie alla difesa complessiva del mondo del lavoro. Naturalmente questo sforzo di comprensione e di elaborazione può produrre degli errori, ma quello che difendiamo prima di tutto è un metodo: proporre e difendere un punto di vista generale che corrisponda agli interessi generali della classe lavoratrice. Sulla crisi e, in genere, sull’evoluzione dei rapporti economici, non deve esistere solo la scelta tra i vari esponenti degli interessi del capitale, di destra o di sinistra, liberisti, semi-liberisti o dirigisti, ma deve esistere il punto di vista della classe che manda avanti con il proprio lavoro l’intera macchina dell’economia capitalista.

La forza delle necessità imposte dalla crisi, per quanto riguarda la condizione dei lavoratori, è tale che anche tra i sindacati, tra alcuni dirigenti politici o tra alcuni intellettuali ci si avvicina alla loro formulazione. Naturalmente, non ci si spinge mai fino in fondo, non si porta fino alle sue logiche conseguenze il singolo provvedimento auspicato perché questo spingerebbe troppo in là il movimento operaio, pericolosamente vicino ai limiti dei rapporti capitalistici di proprietà. Prendiamo l’esempio della rivendicazione di un salario minimo garantito. È un provvedimento imposto dal numero sempre più grande di rapporti di lavoro “atipici”, in cui non esiste praticamente alcun riferimento ai parametri del contratto nazionale di categoria e in cui la retribuzione è affidata all’arbitrio dei datori di lavoro. Già nel 2004, si era sviluppato un certo dibattito tra economisti vicini al centrosinistra, molti dei quali, “con prudenza”, si dicevano favorevoli a un salario minimo legale. Nel mondo sindacale bisognerebbe ricordare la campagna della Confederazione Generale del Lavoro francese per 1500 euro minimi mensili per tutte le categorie, mentre più di recente, con un linguaggio che il moderatismo imperante nella politica e nel giornalismo italiani definirebbe da “sinistra radicale”, l’Unione Sindacale Svizzera ha lanciato la propria campagna per il minimo salariale per legge. Uno degli slogan utilizzati è: “Voglio vivere col mio salario!”. Ecco alcune delle argomentazioni del sindacato svizzero: “Mentre i baroni della finanza si riempiono le tasche a dismisura con bonus milionari, c’è chi ogni giorno è costretto a stringere la cinghia, fino a soffocare. In silenzio.

Questa non è affatto giustizia sociale. Il salario minimo è pertanto uno strumento importante per lottare contro la precarietà e arginare i rischi di scivolare verso la nuova povertà”.

Un altro esempio di, parole d’ordine diffuse “con prudenza”, di provvedimenti di cui si chiede la realizzazione in tono sommesso, di rivendicazioni timidamente avanzate, ma che sono ancorati a delle necessità reali, è la richiesta, da parte della Cgil, di una tassa sui grandi patrimoni. Inutile dire che una maggiore decisione e una maggiore convinzione nell’avanzare questa rivendicazione garantirebbe alla Cgil un appoggio di massa. È anche chiaro che, data l’enorme proporzione di ricchezza sommersa in Italia, il problema di individuare i patrimoni soggetti a imposizione condurrebbe alla necessità di indagare sul tenore di vita, sulle spese di lusso, sulla quantità di beni mobili e immobili di cui i vari ricconi hanno la disponibilità, indipendentemente da tutti i trucchi usati per frodare il fisco. Ma qui ci si avvicina, come si è detto, ai limiti “sacri” del capitalismo e della proprietà privata. E certo, nessun professore, nessun dirigente politico e nemmeno nessun burocrate sindacale oserà mai varcare quei limiti.

Ma i lavoratori non hanno di queste preoccupazioni. Essi non hanno il minimo interesse a rispettare i limiti, che siano dettati dalle leggi vigenti o dalla consuetudine, che le classi capitalistiche hanno alzato attorno ai propri privilegi. Le prime rivendicazioni che la situazione economica impone nell’immediato, siano o meno armonizzabili nell’attuale quadro di leggi ordinarie e costituzionali, nascono dalla necessità di sfuggire alla miseria e dall’affermazione del diritto ad un’esistenza dignitosa:

- Salario minimo legale. Valido per tutte le categorie e collegato all’andamento reale del costo della vita.

- Indennità di disoccupazione unica. Proporzionata almeno al salario minimo legale e corrisposta a chi ha subìto il licenziamento, indipendentemente dalla durata del periodo di lavoro precedente, dalla categoria di provenienza, dalla tipologia di rapporto di lavoro. L’indennità dovrà essere corrisposta fintanto che il lavoratore non trovi un’altra occupazione. Estensione dell’indennità a tutti i giovani in cerca di prima occupazione.

- Proibizione dei licenziamenti.

- Distribuzione del lavoro a parità di salario. L’introduzione dell’informatica ha permesso l’accumulo e la concentrazione di una grande quantità di dati, nelle varie istituzioni preposte a monitorare l’economia, nelle stesse aziende, almeno in quelle di grandi dimensioni, nelle organizzazioni imprenditoriali. Esistono le premesse tecniche per rendere sufficientemente semplice la distribuzione delle ore di lavoro fra tutti i lavoratori impiegati in una stessa azienda o in uno stesso ramo produttivo, secondo i carichi di lavoro esistenti. Non deve più accadere che mentre da una parte si fanno straordinari fino al limite della sopportazione, dall’altra si mettono gli operai in cassa integrazione. Si dovranno eleggere delle commissioni composte da operai, impiegati e tecnici per realizzare praticamente questa rivendicazione.

- Forte imposta progressiva su profitti e rendite. Tanto più necessaria nel momento in cui l’adozione di tutti questi provvedimenti, che sono d’altra parte dettati da necessità minime di sopravvivenza, hanno un costo che deve essere posto in carico soprattutto alle classi più ricche.

Tutti questi obiettivi indicano la direzione di marcia di una mobilitazione generale e continuativa della classe lavoratrice, partendo dalle condizioni oggettive in cui la crisi la ha costretta. Nella misura in cui siamo mille miglia lontani, nella coscienza dei lavoratori, dall’intraprendere questa direzione, essi rappresentano uno strumento di propaganda. Ma non si tratta di una propaganda astratta. Non si tratta di offrire ai lavoratori soltanto analisi, spiegazioni e commenti sul disastro economico che li sta colpendo, si tratta di dire: “La via d’uscita c’è. Essa richiede coraggio e impegno, ma non ci sono alternative”. I rivoluzionari non possono rispondere alle domande che la crisi mette in bocca ai lavoratori semplicemente con formule sindacali più radicali, da una parte, o con la descrizione di un socialismo bello e fatto che non si sa da quale gradino dell’evoluzione sociale dovrebbe prendere le mosse. Abbiamo bisogno, attraverso la propaganda, di legarci a giovani, a lavoratori che accettino la sfida di un impegno che non darà risultati immediati, certo, ma che ha un rapporto logico, diretto con la situazione oggettiva, così come ognuno la sperimenta sulla propria pelle, e che si muove nella linea di ciò che dovrebbe essere fatto.

I punti che abbiamo elencato, d’altronde, non sono che una parte di un programma più ampio che, nel suo insieme, dovrebbe servire da riferimento tanto per le rivendicazioni immediate quanto per la soluzione definitiva alle contraddizioni drammatiche in cui il capitalismo trascina da almeno un secolo e mezzo la società. Non neghiamo che questo programma è in gran parte quello del Manifesto dei comunisti di Marx e quello di transizione di Trotskij, per limitarci al più vecchio e al più recente, in ordine di tempo, degli elaborati in cui il movimento comunista rivoluzionario si è misurato con la necessità di offrire ai lavoratori una sintesi politica capace di offrire risposte nello stesso tempo comprensibili e ancorate al movimento reale della storia.

Ma se riscopriamo nelle parole d’ordine di settanta, cento o centosessanta anni fa la forza di idee ben vive e vitali, ciò è dovuto soltanto alla sostanziale somiglianza tra il capitalismo di oggi e quello dei primordi, ovvero alla sua incapacità di svilupparsi senza incorrere in crisi catastrofiche e senza produrre una miseria di massa su scala sempre più ampia.

Di quale partito abbiamo bisogno

Nelle condizioni concrete in cui si svolge in Italia la lotta per la costruzione di un partito operaio su basi rivoluzionarie, la difesa e la propaganda di un programma operaio, chiaro e comprensibile, ha anche il significato di cercare e di preparare un terreno comune, di facilitare nuovi legami e collaborazioni nel ristretto e disgregato ambiente dei militanti marxisti. Si ripete continuamente, nei volantini e nei periodici dei gruppi rivoluzionari, che bisogna unificare le lotte, che non si può vincere isolandosi fabbrica per fabbrica, ecc. lo scriviamo anche noi. Ma questo che significa? Significa indicare la necessità di una lotta politica della classe. E, più praticamente, significa tentare di stabilire dei legami permanenti con quei lavoratori che condividono la necessità di una tale politica nel momento in cui ancora non esiste. Unire le lotte per noi non è solo uno slogan sindacale, ma il punto di partenza per una evoluzione politica dei lavoratori più coscienti e combattivi.

In un suo noto libro, scritto agli inizi del ‘900, proprio a proposito delle caratteristiche di un partito operaio marxista che nella Russia di allora era ancora da costruire, Lenin affermava: “Bisogna sognare!”. Cioè bisogna avere un’idea di quello che dovrà essere in concreto lo strumento di una politica operaia. Bisogna che si propagandi non solo l’idea della necessità di un partito operaio oggi in Italia, ma anche che se ne definiscano sia pure approssimativamente quelle caratteristiche che scaturiscono da tutta l’esperienza trascorsa del movimento operaio e socialista. Il partito operaio, inteso come organo riconosciuto dalla maggior parte dei lavoratori quale propria emanazione, non potrà vedere la luce, sicuramente, senza una ripresa in grande stile delle lotte di classe e della combattività degli stessi lavoratori. Quando e come questo potrà accadere non lo sappiamo. Chiamiamo, non a caso, “spontaneità” il movimento di lotte e di scioperi che periodicamente, e a volte a distanza di decenni tra un movimento e l’altro, agita tutti i paesi del mondo. Lo definiamo con questo termine per sottolineare che si tratta di fenomeni che nessuna volontà politica è in grado di scatenare a piacimento. Quello che tutta la storia del movimento operaio ci mostra, tuttavia, è che i più importanti partiti marxisti del passato furono costruiti anche grazie ad una minoranza di militanti che aveva capito la necessità di un ruolo e di un’azione politica indipendente della classe lavoratrice prima ancora che le circostanze sociali concrete consentissero a questo “sogno” di diventare realtà.

Di quale tipo di partito ha bisogno la classe lavoratrice? Di un partito che abbia una solida base di principi e di rivendicazioni politiche e sociali condivisi da tutti i suoi militanti. Un partito che rivendichi con orgoglio l’appartenenza al comunismo internazionalista e rivoluzionario, i cui esponenti non hanno aspettato il collasso dell’Urss per denunciare la degenerazione del regime sovietico, ma hanno mantenuta viva, in condizioni difficilissime la continuità con l’autentico spirito rivoluzionario del marxismo contro Stalin e contro un movimento “comunista” internazionale che, già alla fine degli anni ’20, era divenuto l’organo controrivoluzionario della burocrazia sovietica. Di un partito in cui si pratichi concretamente la democrazia operaia, secondo il criterio, mai insuperato fino ad oggi, del centralismo democratico. Di un partito che non confonde l’essere rivoluzionario con l’essere estremista, che non prende i suoi desideri per realtà e che cerca sempre di comprendere quello che gli accade intorno. Un partito che si pone il problema di parlare a tutti i lavoratori e non solo a quelli più politicizzati e che quindi non parla un linguaggio da iniziati o un gergo da club esclusivo.

Detto questo, si pone naturalmente, il problema di che cosa fare per andare in questa direzione. Indubbiamente, ogni piccolo gruppo di marxisti rivoluzionari ha il diritto e il dovere di continuare a portare avanti il proprio intervento là dove ha mosso i primi passi e ha messo qualche radice. Tuttavia è sempre più chiaro che il peggioramento drammatico e generalizzato delle condizioni non solo dei lavoratori ma di gran parte delle classi popolari (disoccupati, partite Iva, piccoli artigiani, ecc.) condiziona l’azione politica di ogni gruppo o circolo di militanti marxisti, per quanto la loro attività sia limitata prevalentemente alla propaganda e al proselitismo. In un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente, i lavoratori con i quali entriamo in contatto ci domandano: “Questi sono gli effetti della crisi del capitalismo, come dite voi, bene: abbiamo visto che difenderci fabbrica per fabbrica non ci porta da nessuna parte, come dite voi, ma allora che cosa si dovrebbe fare? Per che cosa bisognerebbe battersi, come si deve rispondere alla crisi, alla disoccupazione, ai salari da fame, alla precarietà?”. È la richiesta, anche se spesso inconsapevole, di una politica operaia. Ed è un terreno sul quale bisognerà bene che i militanti rivoluzionari si confrontino e che trovino la via di una collaborazione sempre più stretta.

I socialisti di inizio secolo XX si conquistarono la fiducia delle masse proponendosi come rappresentanza politica dei lavoratori. Che cosa volevano i socialisti divenne sufficientemente chiaro a un numero crescente di operai, di contadini, di studenti. I socialisti erano per il suffragio universale, per le otto ore, per la perequazione salariale tra uomini e donne, per l’imposta progressiva, per l’istruzione gratuita e obbligatoria, per la progressiva socializzazione dei mezzi di produzione … . Tutte cose che rappresentavano una risposta precisa alle principali questioni che lo sviluppo del capitalismo poneva alle masse proletarie e semiproletarie, sia sul terreno economico-sociale che su quello politico. Possiamo naturalmente trovare tutte le differenze che vogliamo fra la situazione di oggi e quella di allora, sarebbe perfino puerile enumerarle. Rimane il fatto che un programma e una politica, che ne sia l’articolazione concreta in un periodo determinato, erano e rimangono un grande punto di forza per il domani ma anche per l’oggi. In un impegno serio a definire, discutere, sperimentare, i lineamenti di un programma e di una politica della classe lavoratrice, le forze che si richiamano alla tradizione rivoluzionaria del movimento operaio possono avviare una maturazione che le porti lontano dal pericolo di un isolamento settario e favorisca quelle intese fra raggruppamenti diversi, quell’abitudine al lavoro comune, che attraverso l’annodarsi di relazioni di fiducia reciproca, porti un domani non troppo lontano ad una vera e propria fusione delle correnti rivoluzionarie. Sarebbe ancora poca cosa di fronte alla grandiosità del compito di costruire un vero partito operaio, ma sarebbe comunque il primo significativo passo in quella direzione.

Alcune riflessioni sulla Storia

  Avvertenza. Questo articolo può essere considerato a tutti gli effetti una lunga nota a quello precedente https://umanitapolitica.blogsp...