mercoledì 13 giugno 2012

Libri: Caos e governo del mondo



E’ dalla lontana (o vicina?) metà dell’ottocento che l’occidente, o in altre parole il sistema borghese governato dal capitale, ha preso consapevolezza del fatto che le crisi economiche, attribuite in passato a eventi naturali quali siccità, alluvioni, oppure a conflitti bellici ecc., erano fenomeni da attribuire a condizioni esogene al sistema, a cause, dunque, esterne al sistema stesso.

Uno degli eventi che scosse il mondo borghese intorno al 1846 fu una depressione economica che partendo dall’Inghilterra si diffuse in tutta Europa e in tutto il mondo capitalistico. Ogni strato sociale interpretò in modo diverso le origini di quella crisi e in particolare la borghesia cominciò ad attribuire la colpa a speculazioni finanziarie eccessivamente temerarie.

Ci ritroviamo oggi a distanza di oltre 150 anni sempre e nuovamente con lo stesso ritornello. Perché? Che succede in realtà?
Intorno agli ‘20 del novecento un socialista di nome Kondratiev attraverso alcuni studi pervenne alla conclusione che l’economia capitalistica era soggetta in conseguenza di determinate logiche a crisi cicliche.

Queste confortanti spiegazioni convinsero gli apostoli del Capitale e suoi missionari che fosse sufficiente, purché inesorabile, prevedere e controllare tali crisi e che tramontato il periodo buio si inaugurasse una nuova epoca di espansione e di splendore per il mondo governato dall’utopia del Capitale. Le cose in realtà stanno in modo ben diverso.

In questo saggio Arrighi e Silver partendo da un’analisi fondata dallo storico Braudel e attingendo al metodo della teoria del sistema-mondo di Wallerstein offrono una prospettiva diversa di come stanno le cose e del futuro del Mondo.
I cicli storici di cui ci parlano i due studiosi in Caos e governo del mondo, edito nel 2006, non hanno a che vedere con i suddetti cicli di  Kondratiev e in modo ben più fondato giungono a previsioni che nella prospettiva odierna paiono appropriate.

domenica 10 giugno 2012

Mutualismo? Autogestione?



Non è per polemica con qualcuno in particolare, ma occorre qualche riga per chiarire alcune questioni che riguardano concetti che sono spesso sbandierati da movimenti politici libertari come fossero attuabili e di attualità: uno dei più nominati è per es. il cosiddetto mutualismo. Per quello che riguarda tali sistemi in relazione alla realtà politica, sociale ed economica andrebbero esaminate da vicino alcune condizioni in grado di favorire in misura maggiore o minore la loro realizzazione. Le condizioni che hanno favorito forti processi autogestionari sono ben descritte e documentate da Pierre Ansart 1 che mostra come essi siano nati e si siano sviluppati, in Francia nel caso specifico, dal mutualismo propugnato dai capi laboratorio dei setaioli lionesi.


Andrebbe posta l’attenzione, a mio avviso, sulla cornice storica risultante da una serie complessa di fattori: tra i quali occorre evidenziare il passaggio da un sistema ancora caratterizzato da elementi feudali a quello fortemente industrializzato2 che cambiava il volto della composizione socio-economica e spingeva alcuni ceti alla difesa della propria autonomia. I capi laboratorio, come rileva Ansart, trovandosi alla mercé dei fabbricanti, che imponevano prezzi e condizioni di mercato (per esempio la caratteristica delle tele: colori, foggia, ecc... e non da ultimo scadenze di consegna e quindi anche ritmi di lavoro), erano trasformati in semplici salariati costretti a difendere, a differenza della semplice manodopera, oltre il proprio lavoro anche i loro mezzi di produzione. In tale cornice è da inserirsi anche la visione della “democrazia industriale” di Proudhon.

Negli anni ‘80/’90 pareva riemerso tale modello specie ad opera di Piore e Sabel. La cosiddetta accumulazione flessibile potrebbe avere in qualche modo riprodotto con la deindustrializzazione e col conseguente decentramento produttivo e organizzativo condizioni omologhe sul piano sociale (polverizzazione di attività autonome, Capitalismo molecolare) e geografico (minore accentramento produttivo a livello territoriale). Quanto tutto ciò sia in grado di incoraggiare forme di mutualismo sulle tendenze proudhoniane andrebbe largamente esplorato attraverso lo studio di casi concreti. Certo è che, come rilevano in molti, la flessibilità si accompagna anche al corporativismo degli interessi e a soluzioni, potremmo dire, del tutto strumentali e non guidate da una tensione politica e sociale. La stessa enfasi posta sulla piccola iniziativa privata e sulla “imprenditorialità” no profit potrebbe essere una sorta di utopia controllata come osserva David Harvey a proposito della crisi economica degli anni ’30

Essi [i suoi lavoratori] dovevano, sosteneva Ford, coltivare le verdure nei loro giardini durante il tempo libero (…). Insistendo sul fatto che il fare da sé era <>, Ford si trovava a sostenere quel tipo di utopia controllata, fatta di un ritorno alla terra (…) 3

Nel caso attuale la promessa di uscire dalla crisi risiede, ormai da qualche anno, nella necessità di “mettersi in proprio”, ma mi pare che il parallelo non sia del tutto insensato.
Di seguitò cercherò di delineare molto brevemente e a livello complessivo i motivi del mio personale scetticismo riguardo le possibilità di estendere processi autogestionari in grado significativo sul piano politico almeno per quanto riguarda la realtà in Italia, non senza qualche “incursione” nel generale.

Ritengo che la trasformazione prodotta dal capitale nella seconda metà del XX° secolo abbia mutato profondamente ed in modo irreversibile quelle condizioni sociali che hanno permesso in passato forme di conflitto sollevate da processi storici di autoorganizzazione della classe operaia. Ed un ripensamento delle prospettive autogesionarie deve partire appunto dall’analisi dell’attuale scenario.
La profonda trasformazione a cui abbiamo assistito soprattutto in questo ultimo mezzo secolo è dovuta, sinteticamente, a quel complesso fenomeno che alcuni autori definiscono in diversi modi: rivoluzione informatica, società dell’informazione o, ancora, terza era, che pare abbiano agito con una tendenza alla disgregazione dei rapporti personali. Ma ritengo vadano individuati altri fattori nella concorrenza tra istanze sociali, poteri politici e capitale.

Per quanto riguarda il progresso sociale possiamo osservare un’acquisizione formale delle rivendicazioni sociali anche attraverso la legislazione un aspetto, quest’ultimo, che non sempre viene messo in evidenza come dovrebbe, si dimentica, infatti, l’importanza che la legislazione riveste nell’attuazione delle politiche che le alterne maggioranze tentano di realizzare 4. Con le recenti normative introdotte sul finire del secolo scorso è stata attuata un’ulteriore ristrutturazione che ha vanificato da un lato il conflitto aperto negli anni settanta, volto a costruire un processo di democratizzazione dal basso, dall’altro un possibile cambiamento radicale delle istituzioni. Negli anni '90 era stata scatenata una vera e propria aziendalizzazione selvaggia vanificando la possibilità di una trasformazione “etica” del settore pubblico.

In questi anni credo che le riforme dello “stato sociale” siano state ottenute proprio in virtù di normative che hanno permesso di imprimere l’accelerazione necessaria ad un cambiamento teso non solo a contrastare le conquiste del ventennio di lotte avvenuto negli anni '60 e '70 del secolo precedente, ma ad impedire possibili interventi in senso sociale.
Seppur schematiche le osservazioni sin qui fatte mi paiono sufficienti per esaltare almeno alcune differenze rispetto alla realtà sociale, economica a politica che aveva animato in passato alcune forme di organizzazione e di lotta. Se gli spazi di esistenza possibili diretti a politiche autogestionarie sono regolamentati appare ben difficile la costruzione di realtà concretamente antagoniste al sistema. Elementi costitutivi, inoltre, come la necessaria composizione socio-economica, di dette pratiche pongono un limite alla possibilità di sviluppo verso una “massa critica”.

Riprodurre le forme storiche di riappropriazione di spazi sociali e politici è quindi estremamente difficile se non impossibile da ripensare.
Certo, possiamo assistere da diversi anni, a tentativi di rielaborazione di forme autogestionarie definite di “scambio informale” e non c’è dubbio che lo scambio informale, inteso come rapporto di scambio al di fuori del circuito commerciale e di mercato, si presenti di per sé potenziale momento di conflitto, ma il problema risiede, e la realtà lo ha dimostrato, nella impossibilità di estendere in modo critico il processo 5. Vale a dire l’autogestione non garantisce la radicalità e l’allargamento delle lotte in misura necessaria al mutamento sociale.
Senza soffermarmi in modo specifico sul problema credo si possa osservare che là dove si è avuta un’evoluzione verso lo stato sociale minori sono stati i processi autoorganizzativi 6, e anche la revisione del welfare seppur rimette in gioco lo stato sociale pare essere una riforma che ingabbia gli obiettivi di ricomposizione di una soggettività dispersa in mille rivoli.

Occorre non sottovalutare il recente sviluppo, in tutta l’Europa, di quell’economia definita non profit market che secondo alcuni ha un alto valore sociale, e che è caratterizzata da principi di natura solidaristica e mutualistica. “Il fenomeno in esame infatti è a volte qualificato, appunto, come terzo settore, indicando essenzialmente l'associazionismo a fini non lucrativi e quindi comprensivo del volontariato, della cooperazione, della mutualità” 7. Un’economia dunque che si vorrebbe fondata su quei principi di reciprocità e auto-aiuto che in passato erano ritenuti di “lotta” e di ricomposizione di conflittualità altrimenti disperse.
Il trasferimento di funzioni pubbliche dal sistema di welfare al Terzo Settore è una prassi che consente di assorbire forze antisistemiche e trasformarle, regolamentandole, in servizi sociali col relativo risultato di scaricare i costi collettivi sul singolo. Certo anche il welfare era un costo che colpiva la collettività, ma la collettività intera, aziende, cioè Capitale, compresi. Lo smantellamento del welfare ha "agito" diversamente: alleggerendo le imposte che colpivano le aziende il costo dell’assistenza sta ricadendo solo sul singolo cittadino, in misura ovviamente maggiore sul lavoro dipendente.

L’autogestione intesa nel senso del no profit è dunque in realtà un mare di cooperativismo istituzionale dove annega ogni tentativo di conflitto col Capitale e i rapporti di reciprocità sono fissati da “buone pratiche” procedurali.
Questo contribuisce a cambiare il volto della condizione sociale che in passato, come si è detto, ha ispirato numerosi tentativi autogestionari.
Date queste condizioni la questione che intendo considerare è: quanto le forme autogestionarie siano capaci di creare conflitto, da un lato in rapporto al modo di produzione capitalistico, dall’altro lato in senso funzionalistico con il ruolo regolatore dello Stato.

I due aspetti rispondono ovviamente a problematiche ben diverse per precisi motivi. L’uno riguarda i rapporti con l’economia di mercato. In tale logica perché i sistemi non monetari, per esempio, siano antitetici alla riproduzione delle merci, occorre abbiano la capacità di veicolare un valore d’uso sufficiente da destabilizzare il sistema produttivo. Sappiano quindi rendersi alternativi al paradigma economico dominante.
L’altro concerne i rapporti che stanno alla base della legittimazione dello Stato. Questo significa capacità di contrapporre modelli partecipativi estesi e indipendenti dall’arena politica, e non solo, che restino necessariamente (credo) autosufficienti perché non divengano oggetto di public policy stabilite dalle pubbliche amministrazioni.

Sotto questi aspetti non sembra per ora possibile dare risposte positive. I sistemi considerati rimangono per ora confinati a dimensioni del tutto locali ed estremamente limitate. Perché possano svilupparsi, concludo, richiederebbero condizioni politiche e sociali favorevoli difficili da individuare giacché le strutture di dominio sono in continuo mutamento e si adattano, quando non è possibile guidare direttamente il cambiamento, per esempio nel tessuto sociale, alle realtà locali.
Tali considerazioni non intendono, però, ignorare l’importanza sul piano astratto che le trame sociali presenti potrebbero avere nel futuro di una trasformazione radicale del sistema sia economico che sociale. Non tutti gli attori del terzo settore sono perfettamente incardinati nell’economia capitalistica e potenzialmente, limitatamente a realtà regionali (in aree maggiormente autosufficienti), potrebbero stimolare rapporti associativi e aggreganti nella struttura comunitaria oltre che economica. Il discorso a questo punto diventa eccessivamente complesso e va oltre queste brevi note.
Concludo con l’esortazione a non lasciarsi incantare da forme idealistiche che in questo momento storico non porterebbero a nulla di concreto. Credo che il cambiamento oggi possa partire solamente da una forte organizzazione politica che parta dal basso, ma forte anche nei numeri.

Note

1 Pierre Ansart - Nascita dell'anarchismo - Samizdat – 2000
2 Non è un caso la nascita del saintsimonismo volto a conciliare la lenta scomparsa dei valori d'epoca feudale e la nuova scienza positiva. Per Saint Simon occorre recuperare l'organicità del sistema passato, che l'illuminismo aveva reso decadente, per attualizzarlo rendendolo armonico con il progresso borghese. Questo poteva avvenire, secondo Saint Simon, soltanto con la costruzione di una società economicamente evoluta, ma fondata su principi cristiani e umanistici. A mio avviso alcune teorie sociali emergenti sono improntate al saintsimonismo seppur con sfumature e caratteristiche diverse, manca difatti la fede positivistica nella scienza, sostituita, in un certo senso, da una componente tecnocratica.
3 David Harvey - La crisi della modernità – Net 2002 – pag. 159
4 Le pratiche attuate attraverso le cosiddette “economie senza mercato” apparentemente sfuggono alle strategie di controllo del paradigma di produzione capitalistico, ma non sembrano, dai risultati ottenuti, capaci di raggiungere lo sviluppo necessario per cambiarlo. In ogni caso non significa che debbano essere abbandonate. Personalmente credo che esperienze accumulate in questo senso possano in futuro essere di base per una diversa organizzazione sociale.
5 “l’effetto finale di un graduale mutamento nella procedura amministrativa può, a lungo andare, dare luogo ad un nuovo principio” - Mannheim op. cit. pag. 125.
In Italia, per ragioni del tutto particolari, non è difficile constatare che il dettato costituzionale ha recepito tutta una serie di principi volti a stabilizzare la pace sociale e la cooperazione nella cosiddetta “società civile”.
6 “Lo stato sociale, si potrebbe dire semplificando un po’, ha reso la ricerca di forme autoorganizzate di produzione dei servizi (apparentemente) superflua.” C. Offe e R.G. Heinze - Economia senza mercato – Editori Riuniti 1997.
Certamente l’affermazione non si dovrebbe generalizzare, ma va notato che, per esempio, in Italia ed in Germania dove il Welfare State è (o meglio era) più diffuso sono minori le esperienze mutualistiche, mentre queste ultime sono più vivaci e attive negli U.S.A.
7 come viene espresso da un'indagine conoscitiva sul terzo settore svolta dalla Commissione affari sociali della Camera.

Alcune riflessioni sulla Storia

  Avvertenza. Questo articolo può essere considerato a tutti gli effetti una lunga nota a quello precedente https://umanitapolitica.blogsp...