giovedì 9 agosto 2012

Parole chiare.




Parole chiare

Il governo dei “tecnici” non smette di sfornare capolavori. Ha esordito portando l’età lavorativa alle soglie della vecchiaia. Questo significherà, tra le altre cose, esporre una quota maggiore di lavoratori ai rischi e alle malattie professionali. La famosa “speranza di vita”, fra qualche anno, farà una brusca inversione a “U”. Naturalmente, anche il peggioramento generale delle condizioni dei ceti popolari contribuirà a questo risultato se, come ormai ci dicono le statistiche ufficiali, sempre più gente rinuncia a farsi curare perché non è più nelle condizioni di sostenere le spese mediche. La modifica dell’articolo 18, cioè la via libera ai licenziamenti facili, non farà che aggravare il quadro generale della condizione operaia.

Passata dunque, senza resistenze apprezzabili, la “Riforma del lavoro”, le attenzioni del governo si rivolgono ora alla spesa pubblica e al pubblico impiego. Si parla dei dipendenti dello stato e degli enti locali come di oziosi privilegiati. “Bisogna poterli licenziare!” , si grida da tutte le parti. L’obiettivo del governo è chiaro: ridurre del 10% la massa dei dipendenti nell’ambito di una spending review che andrà a indebolire ulteriormente il sistema sanitario e gli altri servizi alla popolazione. Perché mentre si può rimettere in discussione ogni norma, se questa tutela gli interessi della gente comune, non si può certo mettere in discussione, tanto per fare un esempio, il servizio del debito, ovvero quei settanta o ottanta miliardi che il Tesoro paga mediamente ogni anno ai detentori dei titoli pubblici, in grandissima parte banche, fondazioni e gruppi finanziari. Secondo Monti e secondo i suoi sostenitori, I lavoratori, pubblici e privati, dovrebbero capire. Dovrebbero tacere ed adeguarsi. Che cosa sono le loro pretese di una vita decente, di un lavoro sicuro e di un salario dignitoso, di fronte ai mercati, di fronte alle leggi dell’economia? Dovrebbero rimettersi fiduciosi alla politica economica di quel manipolo di milionari, banchieri, avvocati e ragionieri arricchiti, che siede al governo. Ora si stringe la cinghia, ci dicono, ma poi arriverà la crescita.

Intanto però loro la cinghia non la stringono e l’unica cosa che cresce è la disoccupazione. E come potrebbe essere altrimenti? In ogni azienda, in ogni amministrazione, nel pubblico come nel privato, la parola d’ordine è alleggerirsi . Diminuire il numero dei dipendenti è diventato sinonimo di efficienza economica. I sindacati che cosa fanno? Stanno pensando allo sciopero generale. Proprio così: “stanno pensando”. In pochi mesi, da quando si è insediato, il governo “tecnico” ha fatto a brandelli i pochi diritti fondamentali rimasti ai lavoratori e loro… stanno pensando! Eppure sono maturi i tempi per una risposta generale. Non parliamo di uno sciopero ogni tanto o di una manifestazione a Roma una volta l’anno. Parliamo di un piano di lotte che coinvolga tutto il mondo del lavoro su una piattaforma che ne rappresenti gli interessi complessivi. Un salario minimo vitale garantito a tutti e protetto dagli aumenti dei prezzi, una spartizione del monte ore lavorativo fra occupati e disoccupati senza decurtazione della paga, la proibizione dei licenziamenti. Sono questi i provvedimenti di cui tutta la classe lavoratrice avrebbe immediato bisogno per mantenere un livello accettabile di civiltà, nel pieno di una crisi che il centro studi della Confindustria ha paragonato, per i suoi effetti economici e sociali, a una guerra.

Una mobilitazione generale del mondo del lavoro è certamente qualche cosa di grande e di difficile da realizzarsi. Senza dubbio però è anche il solo presupposto perché milioni di persone non cadano nella miseria e altrettante ci si avvicinino. Per tutto c’è un inizio. Per ogni grande impresa c’è un primo piccolo passo. Oggi il primo passo è mettere insieme i lavoratori che non vogliono continuare a subire senza reagire, quelli che non sono rassegnati, quelli che non dicono “non possiamo farci niente”.

Di che cosa si tratta in pratica? Di passare dalle discussioni casuali davanti alla macchinetta del caffè, alla mensa aziendale, nello spogliatoio, all’inizio di un’attività cosciente e organizzata di agitazione e denuncia sistematica. Anche pochi lavoratori possono rappresentare una forza se ben organizzati. Certo, non possono promuovere da soli uno sciopero generale, ma possono iniziare a combattere quella passività, quell’apatia, quella sfiducia nelle proprie forze che così spesso paralizzano la classe lavoratrice. Per il fatto stesso di esercitare questo tipo di attività, in una fabbrica o in un quartiere, tre o quattro lavoratori rappresenteranno già un inizio promettente, contribuiranno ad alzare il morale dei loro compagni, toglieranno terreno alla rassegnazione, dimostrando nei fatti che si può reagire, intanto facendo intendere la propria voce, con volantini, con riunioni, con bollettini periodici, con piccole manifestazioni. Non è più l’ora della rassegnazione. È l’ora dell’impegno in prima persona e dell’iniziativa perché nessuno toglierà le castagne dal fuoco ai lavoratori se non lo faranno loro stessi.

mercoledì 8 agosto 2012

Essere comunisti...più o meno.


Non condivido le tesi sostenute da Alberto Burgio che sembra esprimere esattamente quel "essere comunisti" rappresentato da essere comunisti.
O meglio: non ne condivido l'orientamento. Le tesi in sé non sarebbero del tutto inaccettabili. Sono dotate di ponderazione, logica e assennatezza, e come potrebbero non esserlo.

Contengono criteri e prospettive condivise da prestigiosi teorici e studiosi, quelli appunto citati da Alberto Burgio. Tutti nomi di cui spesso ci si ritrova a leggere anche con profonda soddisfazione sia in articoli che saggi accademici.
Le analisi proposte, dunque, da questa intellighenzia sono il più delle volte appropriate e illuminanti.
Pare assennato, ad esempio, rivendicare riduzioni dell'orario di lavoro e imporre prelievi fiscali a chi si è già appropriato di quote di ricchezza che gli consentono di viviere (a loro, si) al di sopra delle possibilità.
Non bisogna dimenticare in tutto questo marasma che tra i debiti che vorrebbero far pagare ai lavoratori sono conteggiati finanziamenti concessi a chi ha preso soldi  dalle banche in sfacelo che ora chiedono soldi allo stato borghese, perché evidentemente ne hanno concessi sin troppi.
La questione risiede, invece, non nel risanare questo sistema in disfacimento, ma nel trasformarlo radicalmente. Le soluzioni sono ottime per chi questo sistema vuol tenerselo più o meno così com'è, tutto qui.
E, magari, sarà uno slogan pure un po' equivoco, come sotiene qualcuno, ma vorrei riproporre qui una famosissima citazione marxiana: i filosofi hanno descritto il mondo ora si tratta di cambiarlo.

L'articolo è presente su Internet in vari siti, uno dei tanti è quello citato nel cappello introduttivo

L’oscuramento

di Alberto Burgio


Immaginiamo che al tempo della disputa tra geocentrici ed eliocentrici esistesse già un sistema dell’informazione simile all’attuale (televisioni, quotidiani e rotocalchi). E supponiamo che dalla vittoria degli uni o degli altri dipendessero le condizioni di vita della gente che da quelle televisioni e da quei giornali veniva informata. Come giudicheremmo, in questa ipotesi, una informazione che avesse sistematicamente nascosto la disputa e, per esempio, rappresentato la realtà sempre e soltanto sulla base della teoria geocentrica? Di questo, a mio modo di vedere, si tratta nella lettera sul “Furto d’informazione” che abbiamo inviato a molte agenzie di stampa e ad alcuni giornali nei giorni scorsi e che il manifesto (soltanto il manifesto) ha pubblicato integralmente in prima pagina. Il tema della nostra denuncia è l’«ordine del discorso pubblico» sulla crisi. Un tema concretissimo e materiale, produttivo di fatti altrettanto concreti, che recano nomi illustri: senso comune, ideologia, consenso.

Naturalmente la crisi è fatta di dinamiche economico-finanziarie, alla base delle quali operano, sul piano nazionale e «globale», determinati assetti di potere e una determinata struttura dei processi di produzione e circolazione. Su questo terreno si sono verificate, a partire dal 2007, le vicende che hanno innescato la tempesta finanziaria. Ma la questione che subito si pone – basta un attimo per comprenderlo – è che qualunque cosa si dica a questo riguardo è frutto di interpretazioni. Soltanto persone faziose, intolleranti come Giuliano Ferrara possono pretendere che un’opinione (la loro) sia «oggettiva» e inoppugnabile. Chiunque altro converrà che ogni narrazione implica assunzioni teoriche, ipotesi e, appunto, interpretazioni.

Nel caso della crisi, semplificando al massimo, si fronteggiano due schemi interpretativi. Il primo, mainstream e prevalente sul piano politico, riconduce la crisi a due cause: la crisi fiscale (dovuta a un eccesso di spesa pubblica – i cosiddetti sprechi – in materia di welfare e di pubblico impiego) e la sproporzione tra retribuzioni e produttività del lavoro. Da qui fa discendere, a catena, la crisi dei debiti sovrani, i severi verdetti delle agenzie di rating e le decisioni dei mercati finanziari. Dopodiché la terapia è scontata: essa impone una «rigorosa» politica di tagli (santificata nel fiscal compact), licenziamenti e blocco delle assunzioni, deflazione salariale, privatizzazioni e alienazione del patrimonio pubblico, riduzione delle tutele e dei diritti del lavoro dipendente. L’idea-base di questa visione (coerente col discorso sulle «compatibilità» che da venticinque anni fa proseliti anche a sinistra) è che da mezzo secolo viviamo (più precisamente: la massa dei lavoratori dipendenti vive) «al di sopra delle nostre possibilità». La speranza che la informa è che il «risanamento» della finanza pubblica «rassicuri» i mercati e plachi la fame degli speculatori. O meglio: che questi scelgano altri obiettivi, posto che speculare è la loro ragion d’essere.

L’altra interpretazione della crisi, familiare ai lettori di questo giornale, rovescia la prospettiva. Sostiene che la crisi sia figlia dell’assenza di regole al movimento del capitale industriale (delocalizzazioni) e finanziario (speculazione), della povertà dei corpi sociali (provocata proprio dalle «terapie» propugnate dalla prima ipotesi) e della socializzazione delle perdite dei privati (a cominciare dalle banche, alle quali gli Stati hanno regalato migliaia di miliardi di euro, 4600 nella sola eurozona). Afferma che, lungi dall’essere giudici imparziali, le agenzie di rating lavorano per la privatizzazione delle democrazie (in quanto i governi obbediscono alle loro decisioni), oltre a spianare la strada alla speculazione. Ritiene che le politiche adottate dai governi servano soltanto a drenare enormi ricchezze verso le oligarchie finanziarie.

E suggerisce misure di tutt’altro segno: regolazione dei mercati (non c’è bisogno di essere in tutto d’accordo con Lenin per avere una buona opinione degli accordi di Bretton Woods); una riforma della Bce che ne faccia una vera banca centrale (come la Fed e la Bank of England, che dal 2008 acquistano massicciamente i rispettivi titoli di Stato); incremento dell’occupazione (a cominciare dal settore ambientale, dal welfare e dalla formazione) e riduzione dell’orario di lavoro per accrescere la domanda aggregata; equità fiscale (anche per mezzo di prelievi strutturali su patrimoni e rendite); drastica riduzione della spesa militare. Sottesa a questa prospettiva è la tesi enunciata di recente da Amartya Sen, secondo il quale questa crisi non è il sintomo del fallimento degli Stati, bensì l’effetto del fallimento del mercato, che gli Stati hanno provveduto a salvare. Quanto alle proposte (da tempo avanzate da autorevoli studiosi, tra cui Luciano Gallino, Giorgio Lunghini e Guido Rossi), esse dimostrano come la stucchevole litania che ne lamenta l’assenza rientri nella sistematica disinformazione che abbiamo denunciato. Ora, poniamo che questa pedestre sintesi sia accettabile: che cosa ne discende riguardo alle questioni poste dalla nostra lettera? Una conseguenza molto semplice che, come ha osservato Carlo Freccero, chiama in causa direttamente i compiti dell’informazione e, indirettamente, la qualità della nostra democrazia e le relazioni pericolose tra potere economico e potere politico al tempo della «neoliberismo globalizzato». Se è vero che esistono due letture della crisi, di entrambe queste letture la stampa ha il dovere di tenere conto. Questo dovere incombe in primo luogo sul servizio pubblico (in Italia, la Rai) e sulle maggiori testate indipendenti, sempre che esse intendano assolvere una funzione nazionale e non operare come partiti politici. Tenere conto della presenza di due posizioni contrapposte significa, in questo caso, non presentare quelle dei governi europei e delle istituzioni comunitarie come risposte obbligate, bensì, se non altro, spiegare che si tratta di scelte coerenti con una di queste posizioni, e da essa imposte. Quando un governo decide di tagliare ancora le pensioni, di cancellare l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, di «rivedere la spesa» riducendo posti di lavoro e servizi, di aumentare la pressione fiscale sul lavoro dipendente e di alienare il patrimonio pubblico, la stampa libera di un paese democratico ha il preciso dovere di spiegare al pubblico dei non addetti ai lavori che ciò non avviene perché «c’è la crisi», ma perché questo governo considera indiscutibile la sovranità dei mercati e ritiene giusto subordinarle ogni altro interesse.

Dopodiché tutto il dibattito su chi è tecnico e chi politico andrebbe, come merita, dritto in archivio. Ognuno vede che – fatte pochissime eccezioni – l’informazione non assolve questo dovere, che probabilmente nemmeno riconosce. La nostra lettera ha denunciato tale stato di cose, sottolineandone la rilevanza sul terreno democratico. E proprio perché siamo convinti del nesso che lega informazione e democrazia, abbiamo chiamato in causa anche le massime autorità dello Stato, che a nostro giudizio rischiano di venir meno all’obbligo di imparzialità nella misura in cui offrono il proprio incondizionato sostegno alle scelte politiche del governo, sposandone, per ciò stesso, le legittime ma discutibili opzioni teoriche. Siamo ingenui? Ignoriamo che tutto ciò non avviene per caso? È probabile che ogni denuncia sconti un po’ d’ingenuità, ma saremmo imperdonabili qualora ritenessimo che un appello all’onestà intellettuale possa risolvere ogni problema. Vi è tuttavia un eccesso di realismo in chi ritiene inevitabile che la stampa («l’avversario») sia reticente o faziosa. Non è scritto che il servizio pubblico debba condurre battaglie di parte, e comunque non è accettabile e va denunciato. Altrimenti perché indignarsi per le censure e la disinformazione che spesso, a ragione, gli imputiamo? E perché cercare di impedirle? Quanto alla stampa indipendente, anch’essa ha qualche problema di legittimazione, e non potrebbe rivendicare apertamente il diritto di nascondere ai propri lettori una parte significativa della verità. Tra l’ingenuità e un iperrealismo che rischia di regalare alibi alla disinformazione, preferiamo credere che il confronto delle idee comporti una sfida impegnativa per tutti. Non per caso il silenzio (quello di chi semplicemente preferisce ignorare tutta questa discussione) resta la via più comoda, anche se di certo non la più nobile.

Alcune riflessioni sulla Storia

  Avvertenza. Questo articolo può essere considerato a tutti gli effetti una lunga nota a quello precedente https://umanitapolitica.blogsp...