giovedì 7 giugno 2012

Carlo Donolo: L’olismo politico è sempre reazionario


Articolo che affronta alcuni argomenti trattati in questo blog in modo stringato e lucido. Le sottolineature sono mie e pongono in risalto i punti salienti e più significativi. Buona lettura

Tratto da www.sinistrainrete.info

Un’ondata anonima di romanticismo annacquato e di nostalgia religiosa che l’età delle macchine ha per un certo tempo emanato come manifestazione di protesta spirituale e artistica contro di essa”. 
Robert Musil

Non intendo con queste righe rispondere alle tesi di Ugo Mattei (Beni comuni. Un manifesto, pp. 116, € 12, Laterza, Roma-Bari 2011), altri stanno già rispondendogli nel merito storico (cfr. Giuseppe Sergi e Massimo Vallerani, Riflessioni aggiornate, ma medioevo di maniera) preferisco ricordare solo che il processo della modernità è stato sempre accompagnato da critiche e contestazioni. Mattei si pone in un binario già molto battuto e in cui la ripetizione è dominante. La critica più importante è stata il romanticismo (Rüdiger Safranski, Romantik. Eine deutsche Affäre, Hanser, 2007), che ha anche influenzato in parte le reazioni della chiesa nel corso dell’Ottocento, dalla Restaurazione in poi. C’è sempre stata una domanda di olismo, di ricomposizione dei cocci, di superamento dell’alienazione e così via. Ha preso le forme più diverse, ma con una costante, di cui Mattei dovrebbe essere avvertito: mentre sul terreno culturale ha prodotto anche grandi capolavori, sul piano politico e sociale questa domanda è sempre stata necessariamente reazionaria, direi senza eccezioni. Non può che portare a una concezione organicistica della società con i suoi esiti autoritari e totalitari.

Detto ciò il discorso pubblico sui beni comuni è troppo importante perché venga buttato nella palude degli olismi, che non c’entrano niente. I beni comuni, come argomenta bene anche Pietro Costa in un suo scritto recente (Fondazione Basso, 2012), sono destinati a crescere anche come mero elenco (aperto) nella globalizzazione. In parte li andiamo riscoprendo poco a poco man mano che entrano in crisi o ne cresce il fabbisogno, in parte li andiamo producendo quanto più ci muoviamo verso la società della conoscenza, e verso la proliferazione di mondi virtuali e artificiali. I beni comuni come tema, risorsa sociale e vocabolario potranno dare una grande mano nella necessaria e urgente ricostruzione del regime democratico dopo la sua impasse attuale. Saranno sempre più anche materia di movimenti collettivi e di attivismi civici. Per questa ragione è bene che se ne parli con la massima precisione e affidabilità. E in particolare deve essere chiaro che nessun problema dei beni comuni, e in particolare nessuna loro tragedia, potrà essere trattata fuori dai moderni contributi della scienza e della tecnica. Se si dovesse recidere il ramo della modernità su cui sono fatalmente (in tutti i sensi) seduti, essi non potrebbero che affondare nell’ingovernabilità più totale (credere che bastino i resuscitati saperi locali, magari taciti, è pia illusione, se non altro per la scala dei fenomeni oggi implicati). I movimenti collettivi servono a imporre nuovi temi e nuove agende, ma non sono in grado di gestire alcunché, non è il loro lavoro. I beni comuni sono beni della media e lunga durata storica e sociale, transgenerazionali per definizione, mentre i movimenti sono quanto di più effimero il politico o l’antipolitico possano esprimere.

Fuori dagli equivoci di un postmodernismo reazionario, il terreno di sperimentazione più praticabile è quello di un nuovo modello di gestione dei beni comuni locali (e Mattei è meritoriamente attivo in questo senso) ripartendo dall’ipotesi di base di tutta la teoria: esistono alternative alla proprietà privata e al controllo pubblico. Tali alternative non sono date ma occorre progettarle, compito tanto più difficile perché non esistono più beni comuni locali che siano solo locali. Ogni bene è immesso in un circuito di livelli fino al globale, di conseguenza, ogni bene comune locale è anche patrimonio dell’umanità. Da qui una serie di questioni istituzionali e di governance di non facile soluzione. Eppure questo è il tema su cui lavorare.

Infine, queste forme di governo dei beni comuni, quali che siano o saranno, sono inserite in una complessa struttura istituzionale e costituzionale, il regime democratico maturo, oggi molto fatiscente e bisognoso di profonde riforme. Queste consisteranno, se mai, in una pluralizzazione delle forme istituite e istituenti della democrazia, a complemento, risanamento e controllo della democrazia rappresentativa. Forme di democrazia economica, sociale, culturale e così via, partecipata, deliberativa, ma anche diretta in certi casi particolari, con una nuova generazione di soluzioni referendarie e sondaggisitiche (e-democracy in senso lato).

Il tema dei beni comuni sta emergendo lentamente anche in Italia come un tema politico dirimente. Nella cultura politica tradizionale non ce n’è traccia, del resto la stessa sostenibilità non è mai entrata seriamente nel vocabolario politico usuale. Questo ritardo culturale e valoriale sarà fatale soprattutto per la sinistra, ridotta ormai a un ruolo meramente reattivo e interstiziale. Occorre lavorare perché il linguaggio dei beni comuni, con tutte le loro implicazioni culturali e politiche, modifichi tale vocabolario, e qualifichi lo stesso discorso dei diritti, ancora oggi troppo astratto e talora velleitario. Si tratta di mettere in agenda il governo dei beni comuni e di far tornare in posizione primaria anche la produzione e la gestione dei beni pubblici, compresi quelli più tradizionali. Il mercato ha già dato tutto quello che poteva, comprese le sue perversioni. L’amministrazione pubblica sarà riqualificata tramite l’impegno su questi terreni rinnovati: beni pubblici e beni comuni da curare con attenzione, altrimenti altro che futuro!

Un grande lavoro culturale in primo luogo rivolto al “popolo” stesso, un punto dirimente che sembra sfuggire al neopopulista Mattei: principale portatore dell’interesse nei beni comuni, ma non più capace di praticare questa funzione se non dopo un lungo processo di apprendimento di altre e migliori preferenze. Il popolo fuori dalla politica e dalla costituzione non esiste come soggetto. O esiste solo come sindrome populista con il cuore di tenebra – anche se usa parole di sinistra – dell’autoritarismo e della delega al capo. Basta di tutto ciò. Il popolo oggi è un prodotto altamente contaminato dall’economia del consumo, della messaggio pubblicitario, un popolo di consumatori più ancora che di lavoratori e meno che mai di cittadini. Cittadini lo si diventa, certo anche e magari soprattutto nei movimenti. Ma non basta. Il popolo oggi non è un dato neppure sociologico, deve riflessivamente rinascere come attore della cittadinanza, ristabilendo il contatto con il governo dei beni comuni e quindi con i sistemi di regole, di autoregolazioni e dei mazziniani doveri. Tanti beni comuni non sono stati distrutti dalle multinazionali ma dal popolo stesso, reso miopie dalla “robba”, dal denaro e dal comune individualismo possessivo. Come liberarsi di queste scorie? Non è qui possibile rispondere. Sappiamo che ci sono indizi di possibili mutamenti, un lento riapprendimento di qualcosa che vale di più della seconda auto. Ma ce ne vuole. E, al “popolo”, glielo vogliamo dire facendogli sognare un secondo medioevo? Ma se non ne siamo neppure del tutto usciti, specie in Italia!

mercoledì 6 giugno 2012

Illusioni perdute dell'altro mondo

di Pierre Macherey

Il pensiero utopico aiuta a interpretare i periodi di transizione, quando il vecchio non è ancora morto e il futuro si manifesta con difficoltà. Nella crisi attuale può infatti fornire strumenti per elaborare realistiche strategie di resistenza al neoliberismo.A differenza di quanto avveniva appena un secolo fa, oggi non si scrivono più grandi favole utopiche: le ultime, senza dubbio, sono state quelle di H. G. Welles le quali, però, si presentavano più come racconti d'anticipazione che come utopie in senso stretto.
Perché questo declino? Molto probabilmente perché si è consumata l'aspirazione che dava la forza di credere alla virtù delle utopie, quelle che si situavano all'incrocio dell'immaginario e del reale, in questo punto d'incertezza, ma anche di speranza, in cui sembra si prolunghino l'una nell'altra. È come se questa divisione tra immaginario e reale fosse divenuta insormontabile.

La forma di pensiero propria all'utopia è quella che si adatta meglio ai periodi di transizione, di passaggio, durante i quali non si sa più bene quale posizione si occupi, se si è nel vecchio o nel nuovo: l'utopia opera a fondo questo tipo di equivoco, per questo si può dire che essa sia l'espressione di una crisi. Ma cosa vuol dire «vivere in un periodo di crisi?» È una situazione oggettiva, che obbedisce a dei parametri riconoscibili, oppure, per usare una terminologia corrente, si tratta di un «sentito» soggettivo, della presa di coscienza di un qualcosa che potrebbe essere in procinto di passare, ma di cui non si riescono a definire con esattezza gli antecedenti e le conseguenze, i pro e i contro?

L'utopia prospera nell'intervallo tra i due, quando i due bordi soggettivo e oggettivo della crisi - e tutte le epoche sono, in un modo che non è mai lo stesso, delle epoche di crisi - entrano in comunicazione nonostante ciò che li oppone. Forse viviamo in un tempo in cui questa opposizione è così nettamente definita che non riusciamo più a vedere il nesso che, nonostante tutto, confusamente, ne lega i termini, un tempo nel quale non è più possibile, non è più autorizzata, una «follia» come quella di don Chisciotte che, senza scrupoli, passava incessantemente dall'immaginario al reale e dal reale all'immaginario senza tenere conto della loro separazione.

La mistificazione svelata

A furia di renderci «positivi», e di perdere il senso del negativo, siamo diventati terribilmente lucidi, sarebbe a dire disincantati: potrebbe essere questo che caratterizza la nostra crisi, di cui un certo declino del pensiero utopico sarebbe il sintomo.
Ciò che trovo interessante nella lettura dei testi utopici è che permettono di fare teoria diversamente, ma più in generale, di pensare diversamente, sotto forme più libere, meno rigide, le quali, allo stesso tempo, rivelano i limiti sui quali inciampa inevitabilmente ogni ragionamento astratto quando si nutre, illusoriamente, del sentimento della sua autosufficienza e della sua completezza.
Il pensiero utopico è fondamentalmente critico, corrosivo, ironico, sospensivo prima che conclusivo: i miti che esso costruisce hanno tutti una funzione demistificatrice, ed è per questo che bisogna conoscerli. Ma noi non sappiamo più giocare con i miti ed approfittare della funzione perturbatrice che essi sono capaci di assolvere quando rinunciamo ad assegnare loro un ruolo limitato di indottrinamento e di consolazione, quindi, di propaganda: e questo perché ci fa soffrire pensare efficacemente, adeguatamente, ossia in modo non conforme, irrispettoso, reso produttivo dal fatto di essersi liberato da ogni a priori.

Dal lato della letteratura e delle forme di narratività che essa elabora, le cose, forse, vanno meno male: ed è perché, a mio parere, la filosofia avrebbe molto da guadagnare se rinunciasse a procedere isolatamente, e farebbe bene a occuparsi principalmente di letteratura, a mescolarsi con la letteratura, invece di trattarla come una forma piuttosto vana di divertimento, autorizzandosi così a rifiutarla. La letteratura, di certo, da sola non trasforma il mondo; ma il mondo non si trasformerà senza la partecipazione della letteratura che introduce nel pensiero un fermento di inquietudine, una dose di lavoro del negativo di cui esso ha bisogno per sbarazzarsi delle forme esclusive di convinzione, fisse, tanto più vane quanto più perentorie.
L'utopia non è fatta per essere applicata. Si fraintende la sua natura quando si vede in essa un possibile destinato a essere realizzato, cioè un'anticipazione. Ed è perché, sia detto velocemente, ciò che si chiama letteratura d'anticipazione (o science-fiction) dopo la fine del XIX secolo, in particolare dopo Jules Verne, non coglie lo spirito dell'utopia, ma va ad occupare altre regioni dell'immaginario: risponde ad altri bisogni intellettuali, ed è interessante per altri aspetti.

Il miraggio di Timbuktu

Per farsi un'idea di cosa sia l'utopia bisogna pensare all'esploratore René Caillé il quale, alla fine del XIX secolo, ha attraversato parti ancora sconosciute o poco frequentate dell'Africa, con l'idea fissa di essere il primo ad entrare nella città santa di Timbuktu, allora completamente interdetta agli occidentali, un risultato ottenuto attraverso mille difficoltà e affrontando pericoli di ogni sorta; la narrazione del suo percorso è molto lunga e, da questo punto di vista, appassionante, si legge come un romanzo d'avventure, con i diversi ostacoli che il protagonista ha dovuto superare nel corso della sua pericolosa peripezia; e, quando alla fine raggiunge lo scopo al termine di una progressione sinuosa e contrastante nel corso della quale la tensione non ha mai smesso di crescere, sembra che non abbia più niente da dire: la fine agognata è come un luogo vuoto il cui contenuto è condannato a restare indeterminato.

Questa traiettoria, che si è sviluppata su di un territorio che non può essere più materiale della geografia, può servire da illustrazione per comprendere meglio ciò che Kant chiama, nella terminologia sofisticata della filosofia, un'idea regolatrice della ragione, distinta dalle categorie determinate dell'intelletto che si applicano all'esperienza: con queste idee regolatrici la ragione si impianta nell'ordine del puro «come se», ossia della finzione la quale, sebbene non corrisponda a nulla di reale, può tuttavia giocare un ruolo di incitazione e di guida per la conoscenza e l'azione, persuadendo, a titolo d'ipotesi, ma nulla più di un'ipotesi, che il mondo è comprensibile e trasformabile, in una prospettiva di miglioramento.

L'idea di comunismo ha giocato, ed ha ancora da giocare, un ruolo importante a titolo di idea regolatrice, così come lo è stata la visione quasi allucinatoria di Timbuktu per un René Caillé, visione i cui prestigi si sono sgonfiati in un colpo quando il suo contenuto è stato a portata di mano. L'errore - commesso da persone che erano allo stesso tempo dei criminali e degli imbecilli, e questo ha prodotto delle conseguenze spaventose (la Cambogia !) - è stato quello di installare l'idea di comunismo su di un altro terreno e di trattarla come un programma sperimentale la cui messa in opera non poteva che portare ad un disastro collettivo. Il comunismo, l'umanità probabilmente non lo vivrà mai, in fondo, tanto meglio: ma tutto ciò non impedisce che essa se ne serva come di un'idea regolatrice che ne stimola il progresso; a questo titolo sì, è e deve restare un'utopia.

Contro l'utopia comunista si formulano argomenti basati sul fatto che essa si è bloccata, sì è infranta contro il muro del reale: ma era fatta per realizzarsi? la sua finalità non si sottrae forse all'alternativa della riuscita o dello scacco? Continuo a pensare che l'utopia comunista non ha perso niente della sua attualità proprio in quanto idea, e che ha sempre un ruolo importante da giocare. Infatti, il pensiero liberale borghese è riuscito a rimodellare fin troppo alla perfezione il mondo a suo modo, e se ci è riuscito è perché non si è mai preso il lusso di installarsi sul terreno dell'utopia; ha preferito sviluppare e propagare le sue procedure, le sue «pratiche», tutto ciò che Michel Foucault chiama «tecnologie del potere », «bio-potere», etc., sul terreno della realtà, e questo con un pragmatismo perfetto; si è impadronito della società prendendola, non dall'alto, ma dal basso; è riuscito a investire i più infimi dettagli della vita quotidiana nei quali è pervenuto, gradualmente erodendo il terreno, ad insinuare i suoi rapporti di dominazione e di autorità.

Senza false aspettative

E allora, come resistere? Forse prendendo coscienza della vanità di opporre al programma di sperimentazione che il pensiero liberale borghese è riuscito, con un'astuzia infinita, a mettere in opera - spesso anche improvvisando, procedendo per prove ed errori, senza sapere chiaramente in anticipo dove stesse andando - un contro-programma dalle linee ben definite, coerente e consistente, ma che si rifà, in fin dei conti, a delle promesse senza domani e si accontenta di garantire che «domani, la barba è gratis», il che vuol dire, in ogni modo, non vincolarsi a nulla.
Piuttosto bisogna sfruttare i punti di resistenza isolati quando si presentano, abbandonando l'illusione che essi si inscrivano in un progetto finalizzato, globalmente difendibile, che condurrebbe l'umanità verso la sua fine. È auspicabile, soprattutto desacralizzare l'azione politica, non gravarla di false aspettative, destinate inevitabilmente ad essere deluse.

Da questo punto di vista, è preferibile rinunciare ad essere utopisti in primo grado, sarebbe a dire nel senso peggiore del termine: bisogna servirsi dell'utopia conservandone lo statuto di idea regolatrice che accompagna il pensiero e l'azione, ma che non è fatta per realizzarsi nei fatti.
La società nella quale viviamo è, più che mai, divisa, sottomessa a dei modelli di adattamento normalizzati, tagliata in settori autonomi piegati sulla difesa, cioè sulla conservazione dei loro pretesi valori; si crede di andare avanti anche quando non si va da nessuna parte, quando ci si ritira del tutto. È per questo che resto convinto che l'utopia, il cui spirito ci ha momentaneamente lasciato, ci manchi e che avremmo bisogno di nuove utopie la cui figura rimane interamente da disegnare.

Preambolo a "Illusioni perdute dell'altro mondo"

Inizia con un articolo di Pierre Macherey Illusioni perdute dell'altro mondo questa incursione nei territori del Web. Gli articoli scelti hanno in un certo senso lo scopo di approfondire gli argomenti trattati nei miei post, oltre che completarne il discorso meglio di quel che sarebbe capace di fare il sottoscritto.
L’articolo è tratto da Sinistra in Rete, sito consigliato su questo blog, serbatoio inesauribile di notizie e articoli di critica prevalentemente di orientamento marxista.

Pierre Macherey è storico della filosofia, allievo di Althusser e co-autore del celebre Lire le Capital nonché allievo dello Canguilhem, eminente storico della scienza che fu, come Althusser, direttore dell'Istituto di Storia delle Scienze di Parigi. Pierre Macherey è un’importante figura di riferimento nel dibattito tra marxismo e post-strutturalismo che ha coinvolto diversi studiosi europei.
L'autore affronta il discorso dell’immaginario utopico nella sua funzione di impulso al cambiamento, cioè in quanto contributo alla costruzione di riferimenti capaci di guidare trasformazioni del mondo reale verso nuovi “paesaggi” e prospettive. Ho affrontato anche se in modo un po’ superficiale la questione in Redenzione e Utopia e in altri post.

Non condivido in senso stretto l’affermazione dello stesso Macherey quando sostiene che “Il comunismo, l'umanità probabilmente non lo vivrà mai, in fondo, tanto meglio: ma tutto ciò non impedisce che essa se ne serva come di un'idea regolatrice che ne stimola il progresso; a questo titolo sì, è e deve restare un'utopia.” intanto perché il marxismo non è, e non si presenta nella sua elaborazione teorica, come utopia, se non soltanto nell’interpretazione di alcuni autori, e, in secondo luogo perché il comunismo non è un progetto prestabilito e non lo era nemmeno nel pensiero di Marx. Ne condivido, invece, il senso sotto l’aspetto semiotico e non v’è dubbio che storicamente il marxismo abbia svolto tale funzione.

Occorre dire, d’altronde, che se il “socialismo reale” è stato quel che è stato, con tutte le storture, le aberrazioni, le deviazioni e così via non cambia un fatto sostanziale: esso è stato soprattutto un messaggio di riscatto e di speranza per le “masse” oppresse, progetto e prassi in cui esse hanno creduto e lottato non senza grandi sofferenze. Il fallimento del “socialismo reale” non era già scritto in qualche luogo del mondo o della storia, e giudicarne ex post la sconfitta è sin troppo facile e non toglie nulla al significato di quelle “utopie” (rigorosamente tra virgolette per non creare fraintendimenti).
Si può dibattere degli (e sugli) errori che il “socialismo reale” ha commesso, ma meglio sarebbe dire – i suoi artefici hanno commesso -, analizzarne fatti ed eventi, ragionare e ripensare gli aspetti teorici e prasseologici, ma non v’è dubbio che il XX secolo sia stato segnato dalla comparsa di questa enorme marea destabilizzante per il sistema capitalistico, anche se, inutile dirlo, le maree hanno “alti e bassi”.

A distanza di circa un secolo si ha quasi l’impressione di essere arrivati alla conclusione di un lungo viaggio, di essere giunti a una qualche stazione accorgendoci che forse è quella sbagliata. Per una reale impossibilità o perché una stazione diversa non esisteva può essere questione di opinioni, resta il fatto che consapevoli che il lungo viaggio non ha portato l’umanità dove molti si attendevano, pare ancora attanagliarci un grande smarrimento. Anche se alcuni tentano di mascherarlo.
La fine del viaggio è (pare) la fine delle “grandi narrazioni”. Dopo questa fine, che non è certo la fine della storia, uno degli interrogativi da porsi è: parlare di utopie è ancora possibile? E quale senso ha? O anche in altri termini: il mondo è destinato a seguire un’evoluzione più o meno inevitabile, come sostiene Fukuyama, verso la democrazie borghesi occidentali (e i mercati) o esistono alternative concrete a questo processo?

La mia osservazione personale (per quel che vale) alla luce degli eventi di quest’alba del terzo millennio è che sono tramontate, è vero, le utopie, ma a quanto pare è ancora aperto di fronte agli oppressi e agli sfruttati, ai proletari, ai lavoratori un futuro di possibile cambiamento e di riscatto. Sono tramontate le utopie, ma si sta probabilmente facendo strada una maggiore consapevolezza del mondo, dei suoi limiti e della possibilità di un passaggio più concreto ad una nuova era, con molte meno illusioni. In altri termini il passaggio ad un nuovo sistema di “cose“ si può affrontare con maggiore disincanto, ed è forse un bene piuttosto che un sintomo di debolezza.

martedì 5 giugno 2012

Marx, scienza, rivoluzioni



Quasi a mo' di compendio dei discorsi sull'importanza di Marx e del marxismo sin qui affrontati propongo la lettura di questo breve saggio (Marx_e_Kuhn: la struttura delle rivoluzioni scientifiche) che, senza pretese da parte mia, mi sembra una naturale estensione di alcuni miei post. Non perché abbia la presunzione di pormi allo stesso vertice, mi ritengo un semplice divulgatore, ma perché vi ho ritrovato interessanti riferimenti.

I primi paragrafi del saggio paiono un po’ complessi per le citazioni di argomenti abbastanza tecnici e teoretici: teoria della conoscenza, filosofia della scienza ecc.. In realtà e per fortuna non occorre soffermarcisi. Lo scritto è così chiaro e trattato in modo tanto semplice, non banale e superficiale che è altra cosa, che le difficoltà si riescono a superare tranquillamente. Starà eventualmente all’interesse e alla curiosità di ognuno cercare maggiori ragguagli, se per caso cozza con questioni con cui si ha poca dimestichezza.

In alcuni punti emerge in modo particolarmente chiaro l’aggancio con alcuni concetti che è possibile leggere in modo sparso nelle considerazioni fatte sino ad ora. La citazione che segue potrebbe essere benissimo riportata per esempio in  Premesse a successive considerazioni oppure in Ragionando sulla scienza politica.
Prendendo spunto da questa citazione (tratta dal saggio suddetto) aggiungerò ancora alcuni pensieri a ciò che sino a qua è stato detto


http://www.criticamente.com/
Come si sa Leonardo si occupò di tutto, “inventò” tutto, dal carro armato all’elicottero. Eppure, nella misura in cui le trovate di Leonardo non rappresentavano un certo grado di sviluppo della società ma solo alcune straordinarie trovate di un genio, esse sono state quasi tutte inutili ai suoi contemporanei. E oggi possiamo affermare che arricchiscono l’umanità più le opere d’arte di Leonardo che non una serie di schizzi buoni forse per costruire modellini e inutili sin dalla loro concezione, proprio come ora i libri di fantascienza non aiutano in nessun modo un fisico a costruire un’astronave o una macchina del tempo.

Alcuni o molti (?) sono convinti che le scoperte (o le invenzioni) siano del tutto casuali, anche sociologi del calibro di un Raymond Boudon [si veda p. es. “Il posto del disordine”]. In realtà parlare di casualità è del tutto relativo e fuorviante. Sarà banale come esempio, ma non più di tanto, prendere come riferimento la medicina, ma quanti cadaveri sono stati sezionati e quanti esperimenti del tutto pratici sono stati eseguiti per capire il funzionamento del sistema nervoso e per ripararne certi danni? Sicuro ad un certo punto qualcuno ha pensato di sostituire artificialmente alcuni neurotrasmettitori, ma sarebbe stato pensabile cento anni fa?

Mi si potrebbe rispondere d'altro canto che la scoperta della ruota è stata casuale. Ma mi chiedo in che senso lo sia stato e perché ciò sia avvenuto ad un certo punto della storia. E a conforto di quanto citato da Lorenzo Esposito faccio notare che la stessa ha avuto un utilizzo pratico in un certo sistema economico e sociale e non tra le civiltà precolombiane, che ne avevano comunque conoscenza e cognizione tant’è che è stata ritrovata in alcuni giocattoli.

Aggiungerei ancora, a commento dell’articolo di Lorenzo Esposito, che la scienza borghese non è tutto e solo il prodotto della cultura borghese, tant’è che il marxismo, come altre forme di analisi e di spaccatura col sistema, hanno contribuito a gettare le basi dell’attuale “cognizione del mondo”. Il fatto che operi la cosiddetta “sussunzione reale” anche nei confronti dei saperi è tutt’altra questione e occorrerebbe uno spazio a parte per parlarne.
Altra citazione interessante a conforto di alcune mie affermazioni che pone in rilievo l'importanza dell'intreccio tra scienza e capitalismo si trova in questo passo

Il capitalismo invece ha creato un rapporto organico, permanente tra scienza e processo produttivo. Un rapporto sostanzialmente di subordinazione della scienza all’economia ma comunque fecondo. Gli scienziati sono dei professionisti, la scienza è un mestiere, come anche l’arte. Nell’arte come nella scienza vi è un canale già pronto che stimola, raccoglie e sfrutta l’inventiva umana. Ovviamente, i fisici, gli economisti, come i cantanti e gli attori, devono suonare una musica che non faccia dispiacere (per usare un eufemismo) ai rispettivi produttori. Tuttavia, tanto nell’arte come nella scienza vi è un ampio ventaglio di opinioni e i produttori più intelligenti sanno servirsi dei propri “artisti” più dotati anche quando sono dei ribelli. Il tutto certamente entro limiti prudenti: anche il guinzaglio più lungo a un certo punto si tende.

E' importante rilevare come non sia il capitalismo in sé a creare sviluppo scientifico, ma come, invece, se ne serva per il proprio sviluppo economico sostituendo una vera evoluzione scientifica, capace di sollevare l'umanità intera dalla fatica, al tecnicismo e al puro e brutale progresso industriale. Da tale considerazione emerge, inoltre, il rapporto dialettico esistente storicamente nelle trame del processo di evoluzione umana che evidentemente non ha come punto d'arrivo l'attuale sistema sociale democratico borghese. E non ci sarebbe bisogno di sottolineare che il maggior progresso economico del sistema borghese e capitalistico è ad appannaggio delle classi dominanti e limitato a paesi che per conservare il benessere raggiunto affamano centinaia di milioni di persone sempre più spinte ai margini della povertà.

Concludo con una personale divagazione coerente col breve saggio proposto sottolineando il relativismo di certe affermazioni che a prima vista parrebbero perentorie.
Robertson osserva che “(…) non c’è dubbio che McLuhan riflettesse e contemporaneamente plasmasse le tendenze dei media, tanto più che in seguito abbiamo assistito agli interessati tentativi dei media stessi a consolidare l’idea di comunità globale” [citato in - Globalizzazione, teoria sociale e cultura globale – Asterios 1999]. Il ragionamento che mi sono ritrovato a fare in diverse occasioni è analogo: la condizione attuale del mondo è il prodotto di diverse realtà che si intersecano e non è possibile attribuire quanto un ben preciso evento abbia cambiato il corso della storia. Alcuni marxisti un po' pigri dovrebbero riflettere sul fatto che le cose sono quelle che sono perché sono esistiti Marx e il marxismo. E non credo di sbagliare se affermo che è questo concetto che emerge dal saggio di Lorenzo Esposito.

Se il marxismo non ha trionfato e ha prevalso il modo di produzione capitalistico, non significa che il sistema nel suo complesso non sia diverso da quel che sarebbe stato se il marxismo non fosse esistito. Ovviamente il ragionamento si può estendere anche alla questione di Freud e della psicoanalisi. Freud ha dissacrato la verginità (metafora che uso coscientemente) del sistema culturale a lui contemporaneo sconvolgendo il paradigma della falsa morale borghese. Se ciò non fosse accaduto le scienze umane, e di conseguenza gli schemi culturali, morali ecc. sarebbero diversi, ergo la scienza borghese oggi sarebbe diversa.
Ritengo che questo sia il motivo per cui non tutta la scienza borghese è “borghese” (permettetemi il gioco di parole).

Vi sono dunque elementi in questa che non sono manifestazione della cultura borghese pur dovendone riconoscere la loro derivazione, ma ciò è vero anche per tutti gli altri fenomeni antisistemici. Inoltre l’analogia tra marxismo e psicoanalisi è più che casuale per la ragione che ambedue si propongono come metodo di analisi della realtà, anche se chiaramente su piani diversi. Vorrei, inoltre, far notare, che i cambiamenti prodotti nella storia non dipendono essenzialmente dalla singola personalità, ma da una complessa trama di relazioni e dipendenze che hanno un esito collettivo.

La teoria della libido è stata messa in discussione da tempo e la stessa psicoanalisi ha oggi caratteristiche ben diverse da quelle edificate dal suo autore. Lo stesso Fromm aveva abbandonato le concezioni freudiane della libido modificando notevolmente le basi dello studio psicoanalitico. I motivi per i quali la teoria originaria non è più utilizzata quale era sono molteplici. In prima istanza è che le ricerche successive non hanno dimostrato la validità empirica della concezione freudiana.
Se si risale all’indietro, in ogni caso, la teoria della libido era in realtà già stata messa in crisi al suo nascere da vari autori. A titolo esemplificativo riporto alcune osservazioni.
“(…) se si traduce il termine “libido” con la nozione molto generale e molto vaga che implica la parola “amore”, e se si maneggiano abilmente questi due nomi, dando loro una sufficiente estensione, si può riuscire non dico a spiegare, ma a descrivere in virtù di manipolazioni verbali, tutto quanto avviene e si crea nel cosmo come se fosse di natura libidinosa. (…) mentre in realtà non si ritrova (…) che quanto vi si era messo precedentemente”  [Alfred Adler – Il temperamento nervoso – Astrolabio 1950 pag. 13]
Chiaramente le teorie non sono altro che teorie e alla fine devono trovare un fondamento scientifico. Per proseguire nell’esempio, riporto un'altra citazione: “(…) gli riferii un caso che non mi sembrava particolarmente adleriano, ma che egli non trovò difficoltà ad analizzare nei termini della sua teoria dei sentimenti di inferiorità (…) un po’ sconcertato, gli chiesi come poteva essere così sicuro. – A causa della mia esperienza di mille casi simili – egli rispose; al che non potei trattenermi dal commentare – E con quest’ultimo, suppongo, la sua esperienza vanta milleuno casi“ – L’aneddoto riguarda una conversazione tra Adler e Karl Popper ed è narrato dallo stesso Popper. [Citato in Kanizsa, Legrenzi, Sonino - Pensiero Percezione Linguaggio - Il Mulino 1983 pag. 320]
L’osservazione di Popper è ovviamente sensata e poggia su quella che verrà definita dallo stesso Popper teoria falsificazionista. Intende mostrare che per costruire una teoria scientifica non è sufficiente andare alla ricerca delle conferme di ciò che si ritiene vero, ma occorre cercarne i casi che la falsificano. E’ divertente rilevare che lo stesso paradigma falsificazionista popperiano è attualmente criticato sul piano epistemologico e che allo stesso Popper tocca la sorte degli altri studiosi.

Alcune riflessioni sulla Storia

  Avvertenza. Questo articolo può essere considerato a tutti gli effetti una lunga nota a quello precedente https://umanitapolitica.blogsp...