mercoledì 23 maggio 2012

Immigrazione/Emigrazione


Cosa è "immigrazione e cosa "emigrazione"?  Esiste sempre la possibilità di avvicinare o allontanare la lente con la quale analizziamo le cose. Se la allontaniamo abbiamo una certa visione, se l'avviciniamo è possibile riuscire a vedere particolari che nell'altra prospettiva non erano visibili.

Oppure possiamo fare un'altra cosa: proviamo a vedere l'immigrazione dalla parte dell'emigrato e l'emigrazione dalla parte dell'immigrato.

Se usiamo la lente per analizzare il fenomeno emigrazione/immigrazione, l’uno o l’altro termine dimostrano la possibilità di considerare le cose sotto aspetti diversi, possiamo scoprire, guardando le cose più da vicino, che i nostri antenati, quelli che ora sono gli “zii d’America” sono stati considerati in passato marmaglia. Non dimentichiamoci che gli italiani sono famosi al’estero per la mafia, oltre che per gli spaghetti e la pizza.

Oggi l’Italia è considerata uno dei paesi ricchi (o il più povero tra i più ricchi? Dipende dalla prospettiva, no?), il governo italiano è rappresentato nel G8, ma in un passato, non troppo lontano nel tempo, poteva essere considerata paese del terzo mondo, si pensi ai decenni seguiti all’Unità d’Italia, oppure PVS (paese in via di sviluppo), per esempio negli anni ’50.
Un libro di certo non rivoluzionario come non è l’autore e che mi è capitato di leggere per caso, L’Orda, non manca di far notare tra i tanti esempi, che un lettore del Times in una lettera al giornale nel 1855  – riferendosi ai vagabondi che si esibivano nelle strade di Londra – si esprimeva appellandoli “ I musicisti Italiani”  diceva “sono peggio di un fastidio, sono crudeli tiranni che colpiscono al cuore della libertà fondamentale degli inglesi, quella della privacy” -.

Non penso siano necessari commenti per rilevare l’attuale omologo dei suonatori, di solito rumeni (attualmente),  per le strade di via Po a Torino.
Oggi, per noi, la piaga del pianeta sono rumeni, africani (fino all'altro giorno erano gli albanesi) o altre varie etnie dipendenti da condizioni economiche, più in generale quelli che chiamiamo oppure chiamavamo, per una strana logica oppositiva, extra-comunitari. A loro attribuiamo le peggiori nefandezze: traffico di minori, varia criminalità, oziosità “non hanno nessuna voglia di lavorare”, secondo alcuni, e le donne, ovviamente, sono tutte da redimere.
Altri argomenti che in modo più velato mostrano il disprezzo per l’immigrato sono quelli apparentemente ragionevoli: “tolgono del lavoro agli italiani” oppure “hanno una cultura troppo diversa dalla nostra”.     

Non ci si dimentichi, però, che gli italiani o cittadini di origine italiana all’estero, secondo alcune stime, sono circa una sessantina di milioni e le statistiche dicono che tra il 1860 ed il 1985 ventinove milioni di italiani sono partiti dall'Italia alla volta dei Paesi americani soprattutto in Argentina, Brasile gli Stati Uniti (sono le "tre Italie fuori Italia"). Si consideri, ancora, quanto incidono le cosiddette "rimesse" sull'economia italiana. Quante famiglie vivono (o hanno vissuto in passato) con redditi prodotti all'estero.
Quanti posti di lavoro tolgono gli italiani ai lavoratori di altri paesi? E, provocatoriamente, se questi decidessero di tornare, come si suol dire, in patria? Riuscirebbero l’economia e le strutture del paese a reggere un simile impatto?

Forse sarebbe meglio ringraziare i milioni di diseredati sparsi per il mondo se, per ora, in Italia vi sono solo un paio di milioni d'immigrati. E quel paio di milioni andrebbero a loro volta ringraziati per il loro sollevare, a volte, gli italiani da lavori “spiacevoli”, soprattutto perché pagati una miseria, che altrimenti gli spetterebbero. Questi lavoratori in nero consentono a tutti gli attori dell'economia sommersa, che è fatta da mafie ma non solo, di accrescere i loro profitti che sarebbe altrimenti molto minori.
Da un punto di vista economico un bilancio costi/benefici sarebbe ancora a tutto vantaggio delle imprese. Con costi del lavoro decisamente inferiori riescono ad ottenere utili che sfuggono facilmente al fisco in quanto i costi derivanti dal problema della criminalità tra gli extra-comunitari non ricadono su dette imprese, ma sulla collettività. Economicamente sono  i cosiddetti costi sociali, detto in alte parole “pagano sempre gli stessi”.

Probabilmente la percentuale di criminalità non è maggiore tra gli extra-comunitari rispetto agli italiani, nonostante alcuni proclami sul rischio di sicurezza da parte di alcuni. E’ possibile, per esempio rilevare che malgrado l’incremento di immigrati (senza considerare la difficile stima dei clandestini) alcune statistiche dicono che il numero dei reati nel 2000 sia diminuito rispetto al ‘99. Ma anche ammesso che in percentuale il numero di reati sia maggiore tra gli extracomunitari potrebbe considerarsi un fenomeno del tutto fisiologico.
La situazione si è complicata in questi ultimi ani per diversi motivi, ma pare plausibilmente non dipendere dal fenomeno dei “migranti”. A questo proposito vi invito a leggere alcune osservazioni del RISSC (gruppo di lavoro Sicurezza e criminalità in italia cheanalizza le politiche di sicurezza a livello nazionale)

Sicuramente le occasioni di enormi guadagni attirano sfruttatori, mafie straniere che vengono a fare concorrenza a quelle di "origine controllata": fenomeni che scatenano guerre tra bande e altri crimini che vengono compresi nel numero totale dei reati commessi nell’arco dell’anno. E, nuovamente, non ci si dimentichi che nella maggioranza dei films americani la Sicilia è sinonimo di mafia e l'immagine degli italiani all'estero è stata per lungo tempo condizionata da questa tara.
Per contro vi è un aspetto positivo nel cosiddetto "melting pot" che potrebbe pure essere considerato educativo ed essenziale per insegnare alla cultura occidentale che deve convivere con valori e principi diversi da quella indiscussa matrice politica utilitaristica.

Il fenomeno immigrazione/emigrazione è anche all’origine del razzismo ed è intrinseco alla logica del sistema attuale basato soprattutto sull’economia e il profitto, nello stesso modo in cui esso crea miseria e sottosviluppo produce odio razziale e nazionalismi. Il problema razziale non è slegato per esempio dalla più ampia questione del sottoproletariato, inteso esattamente nelle sue forme economiche e politiche.
In sintesi è la riproduzione delle logiche, dei principi che lo reggono. Logiche di inclusione/esclusione, di privilegio, di ineguaglianza che stanno alla base del suo funzionamento.
Se adottiamo una logica selettiva nei rapporti con gli altri, scegliamo (inconsapevoli o meno) un mondo selettivo e, di conseguenza, istituzioni selettive, anche se è vero che per certi aspetti le due cose sono in realtà intrecciate. Credo che lo "stereotipo del nero" abbia un contesto più ampio così come, in generale il fenomeno di oppressione delle minoranze.

Certo può essere combattuto trasformando nel tempo modelli culturali fondati su credenze errate, sistemi morali basati su concezioni elitarie della natura umana, e l’elenco potrebbe estendersi per ore. Ma occorre rilevare che il razzismo è sempre associato a emarginazione derivante da profonde differenze economiche e dunque a posizioni diverse nella scala gerarchica del potere. In poche parole il razzismo si dovrebbe combattere e cancellare attraverso un processo di rinnovamento si culturale, ma anche politico ed economico.

E' da tenere presente, anche se il nesso può apparire meno diretto dei modelli culturali, che il sistema economico ha una grande importanza strutturale nella conservazione di meccanismi discriminatori, i quali, per ceti versi, sono da considerare alla base di comportamenti razzisti. D'altro canto non si deve  limitare il significato di razzismo al solo odio razziale, o al marchio etnico, ma estenderlo in generale all'incapacità di riconoscimento dell'Altro, riconoscimento che solleva tutta una serie di questioni morali e non solo, comprenderne il senso potrebbe forse essere l’inizio per costruire una società con meno ingiustizie.

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