venerdì 29 giugno 2012

Guerra globale


"Forse, senza saperlo, stiamo combattendo la prima guerra globale del Duemila. Una guerra che non usa più armi, che non bombarda né fa esplodere atomiche, che non provoca morti, ma produce fame, disoccupazione, scontro sociale, impoverimento. Insomma, riduce sul lastrico i perdenti. Le direttive che pervengono dall'UE o dalla Bce assomigliano ai piani strategici di uno Stato Maggiore: far resistere la Grecia ad ogni costo, apprestare immediate difese per le prime linee direttamente sotto attacco che si chiamano Italia e Spagna. E i quotidiani listini delle Borse europee ed extraeuropee e li si attendono con la stessa ansia, con la stessa trepidazione dei Bollettini di guerra di una volta."

Andrea Camilleri
Chi non ha vissuto sufficientemente a lungo per tornare indietro con la memoria alla cronaca degli ultimi 30/40 anni, è probabile che non si accorga di quanto, negli ultimi anni, la parola guerra sia presente negli argomenti dei mas-media, nelle pagine dei giornali o semplicemente nei discorsi quotidiani.
L’osservazione non è priva di un significato preciso: è evidente che qualcosa è ormai cambiato nelle coordinate geopolitiche. Se rappresentassimo sugli assi di un piano cartesiano il potere economico e militare dei paesi mondiali da una parte e l'arco di tempo che va dagli anni '40 ad oggi dall’altra, potremmo definire una mappa dinamica degli equilibri mondiali nazionali e verificare le differenze rispetto all’immediato dopoguerra. Terminato il conflitto della cosiddetta seconda guerra mondiale è iniziata la "guerra globale"

Per cogliere alcuni aspetti del mutamento occorre ritornare per un’ennesima volta, dopo anni di dibattiti, alla scomparsa dell’U.R.S.S. e del blocco sovietico. Con la scomparsa del “nemico numero uno” attribuire a forze ben definite e facilmente identificabili una presunta minaccia all’ordine mondiale, alla stabilità politica e sociale occidentale e alle cosiddette “democrazie compiute” era diventato molto difficile. Era necessario “ricostruire” un nemico che rappresentasse una minaccia e fosse il capro espiatorio che giustificasse la crisi del sistema generale, la perdita degli equilibri interstatali (la pax americana) da qualche parte occorreva trovarlo. Detto. Fatto! Il nuovo nemico si cominciò a chiamare terrorismo internazionale. Niente di meglio: il nuovo nemico non è un ente ben definito, non ha confini, può cambiare e nascondersi, a seconda delle circostanze, ovunque, e non è riconoscibile in modo palese! E’ il nemico globale per eccellenza. Esso può essere individuato e stanato solo ed unicamente dalle complesse reti spionistiche o controspionistiche, che operano, ovviamente, in segreto.

Il cittadino comune non è dunque in grado di giudicare più o meno oggettivamente e (questo è importante) di volta in volta la gravità della minaccia. Il fatto che da circa un decennio la minaccia si ritenga provenire dal terrorismo islamico è del tutto marginale. Domani sarà possibile individuarla in qualche altra “essenza”, sigla o entità a seconda di dove saranno gli interessi, quasi sempre economici, da salvaguardare. Gli interessi da salvaguardare ancora oggi, nonostante la crisi colpisca pesantemente l’economia statunitense sono quelli made in U.S.A., i quali, nonostante l’indebolimento economico-strategico sul piano mondiale, si presentano sul piano militare come gli unici garanti (o gli unici possibili garanti) della protezione ai paesi subalterni occidentali. Questo non è meno vero nonostante si sia assistito prima del 2009 al tentativo di Francia e Germania, per quanto riguarda l’Europa, di contrapporsi sul piano politico-strategico alla superpotenza in questione. La catastrofe finanziaria mondiale ha per ora oscurato alcune strategie, ma non per forze si deve pensare che la Germania abbia abbandonato strategie politiche ed economiche volte a tale fine. Il ruolo di “comando” palesato dalla cancelliera tedesca è abbastanza indicativo.

Per quel che riguarda la questione orientale la storia si complica un po’. Non c’è dubbio che con la Guerra del Golfo anche il Giappone avesse acquistato, abbastanza a buon mercato, la protezione americana con qualche milione di dollari, ma non è altrettanto vero che a distanza di oltre dieci anni il Giappone e tante trasformazioni (spostamenti ad es. di equilibri economici e finanziari) abbia il disperato bisogno di conservare la propria presenza economica nelle zone che allora apparivano più importanti. Lo sono invece ancor di più oggi per gli U.S.A., dopo che il potere finanziario nipponico ha conquistato maggiori fette di mercato in oriente allargando la propria influenza commerciale. Ma andiamo con ordine e torniamo al Terrorismo.

Il pensiero non può portarci che al fatidico 11 settembre.
In un certo senso parte dello scompiglio del mondo islamico nasce dalla contrapposizione degli interessi geopolitici dei due blocchi (U.S.A.- U.R.S.S.). Da una parte la strumentalizzazione dello schieramento sunnita dall'altra di quello sciita, perché quest'ultimo doveva rappresentare il “soggetto rivoluzionario” che lottava contro gli interessi della borghesia sunnita. Sembra strano il destino dei taliban: avevano rappresentato gli interessi dell'imperialismo americano ora  paiono potenti terroristi da sterminare. Questa stranezza appare tale solo agli occhi di chi crede l’<> della guerra al terrorismo davvero uno scontro tra Civiltà, naturalmente.
Ma le cose non stanno in questo modo. L’11 settembre fu per gli Stati Uniti una manna dal cielo. Una manna che, secondo alcuni, è stata aiutata a scendere anche se forse poteva essere in qualche modo fermata. Un “qualcuno” aveva osato attentare alla democrazia americana, aveva ferito non solo l’orgoglio della superpotenza ma il cuore di milioni di americani. Perché?

Leggendo alcuni giornali di quei fatidici giorni si apprende che sia il padre che un fratello di Bin Laden (il cavalliere dell'apocalisse presumibilmente scomparso) morirono in circostanze misteriose, tutti e due in un incidente aereo. Guarda caso nel periodo in cui erano in affari con la Compagnia Petrolifera della famiglia Bush. Più che una guerra questa sembrava una faida.
Però funzionanò. La vendetta di migliaia di famiglie americane che avevano perduto un caro nel crollo delle Torri rimase per anni in cerca del colpevole: un colpevole che a mano a mano del passar del tempo si stava trasformando in un’entità eterea.  
Con un Bin Laden in circolazione, amico di Saddam occorreva colpire l’Iraq – attenzione! - non solo perché si supponesse in possesso di arsenali atomici, chimici o di ogni altro tipo immaginabile (sono in molti i paesi della terra a costruire bombe atomiche), ma perché osava sostenere il terrorista Bin Laden; il peggior nemico degli americani colpiti al cuore per la scomparsa dei loro affetti. Miglior amico degli U.S.A. quando Taliban e Mujaidin combattevano contro le truppe sovietiche in Afghanistan. Motivo più convincente di quanto potesse essere la minaccia della bomba atomica – per il popolo americano – con la quale, oramai, ci si era abituati a convivere come fosse una sorta di assuefazione.

Per il resto del mondo, però, credere alla “favola bella” era più difficile. Certo gli U.S.A. erano, e restano ancora, nel cuore di molti un simbolo di giustizia, i guardiani della democrazia o i poliziotti del mondo, ma la costruzione del consenso è parecchio complessa. Si instaurò quindi una propaganda di guerra a tutto campo. Se non si fermava immediatamente l’Iraq tutto il mondo era in pericolo. Strana storia come per i Taliban. E’ sufficiente, anche in questo caso, cercare alcune notizie sui giornali dell’epoca per sapere che il ministro della difesa U.S.A. Rumsfeld aveva avuto incontri ufficiali con Saddam Hussein a Bagdad, nel 1983-1984, all’epoca della guerra Iran-Iraq, e in seguito a tali incontri gli USA fornirono a Saddam gli "agenti biologici" necessari per costruire le armi di cui gli agenti dell’Onu andarono alla ricerca.
Già…dove poteva colpire Saddam con la congrega dei terroristi islamici? Ovunque! Gli Stati Uniti d’America si autoconferirono il ruolo messianico e salvifico, di liberare il pianeta dalla minaccia. Dopodiché la ricostruzione dei paesi pacificati poteva permettere di costruire solide democrazie a immagine e somiglianza della principale democrazia mondiale. Tale era la “Teologia” contenuta nella propaganda dell’era Bush.

Vediamo come stanno [stavano] le cose da un altro punto di vista.

La guerra del Golfo era costata in tutto intorno ai 13 miliardi di dollari. Niente male per pochi giorni di “interventi chirurgici”. Inoltre aveva permesso di riconquistare con una dozzina di morti, da parte del messianico esercito, il controllo dei pozzi petroliferi.
Così recitava un comunicato - NEW YORK (Reuters) - Il consulente finanziario capo del presidente Bush stima che gli Stati Uniti potrebbero spendere tra i 100 e i 200 miliardi di dollari per fare una guerra in Iraq, ma dubita che l'offensiva possa spingere il paese in recessione o far salire  l'inflazione, scriveva ai tempi della fatidica guerra in Iraq il Wall Street Journal.
Questo significava, secondo gli esperti di bilancio, sopportare una spesa compresa tra l’1 e il 2% del Pil (U.S.A.). Si pensi, per avere un raffronto, che l’intero ammontare di riserve in dollari del Giappone all’epoca della guerra del Golfo era di circa 70 miliardi di dollari.
La situazione anche in questo caso può apparire ben diversa. Il problema non consisteva nella paura di inflazione, ma nella possibilità di sfruttare economicamente una spesa così enorme che poteva far ripartire alcuni settori produttivi stagnanti e risollevare una crisi strutturale. Si assiste oggi agli effetti prodotti dal mercato finanziario, che aveva assorbito investimenti non impiegabili nella produzione, dopo le bolle speculative degli anni è ’90.

La fase di contrazione materiale che aveva trovato sbocco, per i capitali eccedenti, nell’alta finanza (non è un caso la generalizzata deregulation in campo finanziario sul finire del XX scolo) esigeva l’alternativa concreta di un’espansione produttiva. Un paio di centinaia di miliardi di dollari non sono poca cosa. Fioccano commesse, si muove la rete economica che vi sta attorno. E non si dimentichi che gli investimenti militari hanno sempre sorretto l’economia statunitense non solo durante le due guerre mondiali.
L’appoggio tanto accorato (la complicità) del Regno Unito alla guerra in Iraq va visto nella prospettiva di accordi economici e commerciali privilegiati che dovevano seguire ad una possibile, quanto vana come è noto, ricostruzione economica: rimuovere le macerie di un paese distrutto frutta sempre per qualcuno altri miliardi di dollari. E l’Inghilterra non poteva permettersi di perdere terreno in Europa. 

Il petrolio, inoltre, rappresenta oltre il 50% del consumo energetico della Terra: esso resterà ancora per parecchi anni a venire la maggiore risorsa di energia esistente e più facilmente sfruttabile nonostante si continui a parlare di risorse alternative. Questo ne fa il più potente strumento di controllo economico. Il controllo dei pozzi di petrolio significa anche controllo del prezzo del petrolio di conseguenza controllo, appunto, dell’economia mondiale. Ma quale minaccia più spaventosa per gli Stati Uniti! Altro che terrorismo! Se la guerra all’Iraq non fosse stato un affare le multinazionali e le banche non sarebbero sorte contro tale follia? Il Capitale prospera con le guerre chi ci rimette è l’altra parte del mondo: i lavoratori, i dannati del pianeta, chi vive con meno di un dollaro al giorno. Con l’aumento del prezzo del petrolio si può ricattare l’economia di un intero paese e chi vive nel ricatto sono i lavoratori! 

L’altra faccia della medaglia era che la guerra all’Iraq legittimava [e ha in effetti legittimato] agli occhi di centinaia di milioni di diseredati, poveri e sfruttati l’alternativa politica dei Bin Laden o altri aspiranti dittatori, anche una volta messo da parte il sanguinario Saddam, che forse non ha fece più vittime delle strategie di embargo impiegate dagli Stati Uniti e dagli ”stati servi”.
Non è tutto qui, c’è di peggio! 
La teologia salvifica e la sua logica perversa, a cui hanno anche aderito i paesi europei con la guerra “umanitaria” nella ex Jugoslavia, sta facendo rientrare nella normalità quotidiana aberrazioni di una convivenza (in)civile, che si ha il coraggio, la disonestà e l’indecenza di chiamare democrazia!

Come osservava Hobsbawn 1<<(…) questo secolo ci ha insegnato, e continua a insegnarci, che gli uomini possono imparare a vivere nelle condizioni più brutali e teoricamente intollerabili, non è facile cogliere fino a che punto (purtroppo in misura sempre crescente) vi sia stato un regresso verso ciò che i nostri antenati ottocenteschi avrebbero definito barbarie>>.
Questa barbarie si chiama disonestamente <<ordine mondiale>> e serve a mascherare l’egemonia americana e i delitti del Capitale.
Di fronte a questa barbarie i lavoratori debbono e possono fare qualcosa. Questo qualcosa è riprendere la lotta di classe che oggi con la internazionalizzazione del Capitale a maggior ragione non può non essere mondiale. Le false promesse del benessere per tutti avevano convinto qualcuno che questo fosse veramente l’unico mondo possibile. Oltre vent’anni  di neoliberismo hanno inasprito e aggravato il conflitto e il divario tra nord e sud del mondo, tra centro e periferia del mondo. All’interno dello stesso centro è cresciuto il divario economico tra le élite dominanti e la classe lavoratrice che assiste al sistematico annullamento delle conquiste del passato.
Lo sfacelo economico di questi ultimissimi anni sembra aver fatto dimenticare che le strategie di conflitto sul piano mondiale vanno ricercate nelle logiche di conservazione del capitale e delle classi dominanti capitalistiche, e dei sui servi.
Occorre opporsi ai massacri delle guerre combattute con gli eserciti, ma anche alle guerre del Capitale contro il lavoro. Gli strumenti per combattere sono lo sciopero generale, le manifestazioni, l’autorganizzazione, la lotta sui posti di lavoro. Non possiamo aspettare ancora!

1 Già citato in 

Meglio chiarire da subito. Premesse a sucessive considerazioni

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