Chi non ha vissuto sufficientemente a lungo per tornare
indietro con la memoria alla cronaca degli ultimi 30/40 anni, è probabile che
non si accorga di quanto, negli ultimi anni, la parola guerra sia presente
negli argomenti dei mas-media, nelle pagine dei giornali o semplicemente nei
discorsi quotidiani.
L’osservazione non è priva di un significato preciso: è
evidente che qualcosa è ormai cambiato nelle coordinate geopolitiche. Se
rappresentassimo sugli assi di un piano cartesiano il potere economico e
militare dei paesi mondiali da una parte e l'arco di tempo che va dagli anni '40 ad oggi dall’altra, potremmo definire una mappa
dinamica degli equilibri mondiali nazionali e verificare le differenze rispetto
all’immediato dopoguerra. Terminato il conflitto della cosiddetta seconda guerra mondiale è iniziata la "guerra globale"
Per cogliere alcuni aspetti del mutamento occorre
ritornare per un’ennesima volta, dopo anni di dibattiti, alla scomparsa dell’U.R.S.S. e del blocco
sovietico. Con la scomparsa del “nemico numero uno” attribuire a forze ben
definite e facilmente identificabili una presunta minaccia all’ordine mondiale,
alla stabilità politica e sociale occidentale e alle cosiddette “democrazie
compiute” era diventato molto difficile. Era necessario “ricostruire” un nemico
che rappresentasse una minaccia e fosse il capro espiatorio che giustificasse
la crisi del sistema generale, la perdita degli equilibri interstatali (la pax americana) da qualche parte
occorreva trovarlo. Detto. Fatto! Il nuovo nemico si cominciò a chiamare
terrorismo internazionale. Niente di meglio: il nuovo nemico non è un ente ben
definito, non ha confini, può cambiare e nascondersi, a seconda delle
circostanze, ovunque, e non è riconoscibile in modo palese! E’ il nemico
globale per eccellenza. Esso può
essere individuato e stanato solo ed unicamente dalle complesse reti
spionistiche o controspionistiche, che operano, ovviamente, in segreto.
Il cittadino comune non è dunque in grado di giudicare
più o meno oggettivamente e (questo è importante) di volta in volta la gravità
della minaccia. Il fatto che da circa un decennio la minaccia si ritenga
provenire dal terrorismo islamico è del tutto marginale. Domani sarà possibile
individuarla in qualche altra “essenza”, sigla o entità a seconda di dove
saranno gli interessi, quasi sempre economici, da salvaguardare. Gli interessi
da salvaguardare ancora oggi, nonostante la crisi colpisca pesantemente l’economia
statunitense sono quelli made in
U.S.A., i quali, nonostante l’indebolimento economico-strategico sul piano
mondiale, si presentano sul piano militare come gli unici garanti (o gli unici
possibili garanti) della protezione ai paesi subalterni occidentali. Questo non
è meno vero nonostante si sia assistito prima del 2009 al tentativo di Francia
e Germania, per quanto riguarda l’Europa, di contrapporsi sul piano
politico-strategico alla superpotenza in
questione. La catastrofe
finanziaria mondiale ha per ora oscurato alcune strategie, ma non per forze si
deve pensare che la Germania abbia abbandonato strategie politiche ed
economiche volte a tale fine. Il ruolo di “comando” palesato dalla cancelliera
tedesca è abbastanza indicativo.
Per quel che riguarda la questione orientale la storia
si complica un po’. Non c’è dubbio che con la Guerra del Golfo anche il
Giappone avesse acquistato, abbastanza a buon mercato, la protezione americana
con qualche milione di dollari, ma non è altrettanto vero che a distanza di oltre
dieci anni il Giappone e tante trasformazioni (spostamenti ad es. di equilibri
economici e finanziari) abbia il disperato bisogno di conservare la propria
presenza economica nelle zone che allora apparivano più importanti. Lo sono
invece ancor di più oggi per gli U.S.A., dopo che il potere finanziario
nipponico ha conquistato maggiori fette di mercato in oriente allargando la
propria influenza commerciale. Ma andiamo con ordine e torniamo al Terrorismo.
Il pensiero non può portarci che al fatidico 11
settembre.
In un certo senso
parte
dello scompiglio del mondo islamico nasce dalla contrapposizione degli
interessi geopolitici dei due blocchi (U.S.A.- U.R.S.S.). Da una parte la
strumentalizzazione dello schieramento sunnita dall'altra di quello sciita,
perché quest'ultimo doveva rappresentare il “soggetto rivoluzionario” che lottava
contro gli interessi della borghesia sunnita. Sembra strano il destino dei
taliban: avevano rappresentato gli interessi dell'imperialismo americano
ora paiono potenti terroristi da
sterminare. Questa stranezza appare tale solo agli occhi di chi crede l’<>
della guerra al terrorismo davvero uno scontro tra Civiltà, naturalmente.
Ma le cose non stanno in questo modo. L’11 settembre fu per
gli Stati Uniti una manna dal cielo. Una manna che, secondo alcuni, è stata
aiutata a scendere anche se forse poteva essere in qualche modo fermata. Un “qualcuno”
aveva osato attentare alla democrazia americana, aveva ferito non solo
l’orgoglio della superpotenza ma il cuore di milioni di americani. Perché?
Leggendo alcuni giornali di quei fatidici giorni si
apprende che sia il padre che un fratello di Bin Laden (il cavalliere
dell'apocalisse presumibilmente scomparso) morirono in circostanze misteriose,
tutti e due in un incidente aereo. Guarda caso nel periodo in cui erano in
affari con la Compagnia Petrolifera della famiglia Bush. Più che una guerra
questa sembrava una faida.
Però funzionanò. La vendetta di migliaia di famiglie
americane che avevano perduto un caro nel crollo delle Torri rimase per anni in
cerca del colpevole: un colpevole che a mano a mano del passar del tempo si stava
trasformando in un’entità eterea.
Con un Bin Laden in circolazione, amico di Saddam occorreva
colpire l’Iraq – attenzione! - non solo perché si supponesse in possesso di
arsenali atomici, chimici o di ogni altro tipo immaginabile (sono in molti i
paesi della terra a costruire bombe atomiche), ma perché osava sostenere il
terrorista Bin Laden; il peggior nemico degli americani colpiti al cuore per la
scomparsa dei loro affetti. Miglior amico degli U.S.A. quando Taliban e
Mujaidin combattevano contro le truppe sovietiche in Afghanistan. Motivo più
convincente di quanto potesse essere la minaccia della bomba atomica – per il
popolo americano – con la quale, oramai, ci si era abituati a convivere come
fosse una sorta di assuefazione.
Per il resto del mondo, però, credere alla “favola
bella” era più difficile. Certo gli U.S.A. erano, e restano ancora, nel cuore
di molti un simbolo di giustizia, i guardiani della democrazia o i poliziotti
del mondo, ma la costruzione del consenso è parecchio complessa. Si instaurò
quindi una propaganda di guerra a tutto campo. Se non si fermava immediatamente
l’Iraq tutto il mondo era in pericolo. Strana storia come per i Taliban. E’
sufficiente, anche in questo caso, cercare alcune notizie sui giornali dell’epoca
per sapere che il ministro della difesa U.S.A. Rumsfeld aveva avuto incontri
ufficiali con Saddam Hussein a Bagdad, nel 1983-1984, all’epoca della guerra
Iran-Iraq, e in seguito a tali incontri gli USA fornirono a Saddam gli
"agenti biologici" necessari per costruire le armi di cui gli agenti
dell’Onu andarono alla ricerca.
Già…dove poteva colpire Saddam con la congrega dei
terroristi islamici? Ovunque! Gli Stati Uniti d’America si autoconferirono il
ruolo messianico e salvifico, di liberare il pianeta dalla minaccia. Dopodiché
la ricostruzione dei paesi pacificati poteva permettere di costruire solide
democrazie a immagine e somiglianza della principale democrazia mondiale. Tale era
la “Teologia” contenuta nella propaganda dell’era Bush.
Vediamo come stanno [stavano] le cose da un altro punto
di vista.
La guerra del Golfo era costata in tutto intorno ai 13
miliardi di dollari. Niente male per pochi giorni di “interventi chirurgici”.
Inoltre aveva permesso di riconquistare con una dozzina di morti, da parte del
messianico esercito, il controllo dei pozzi petroliferi.
Così recitava un
comunicato - NEW YORK (Reuters) - Il consulente finanziario capo del presidente
Bush stima che gli Stati Uniti potrebbero spendere tra i 100 e i 200 miliardi
di dollari per fare una guerra in Iraq, ma dubita che l'offensiva possa
spingere il paese in recessione o far salire
l'inflazione, scriveva ai tempi della fatidica guerra in Iraq il Wall
Street Journal.
Questo significava, secondo gli esperti di bilancio,
sopportare una spesa compresa tra l’1 e il 2% del Pil (U.S.A.). Si pensi, per
avere un raffronto, che l’intero ammontare di riserve in dollari del Giappone
all’epoca della guerra del Golfo era di circa 70 miliardi di dollari.
La situazione anche in questo caso può apparire ben
diversa. Il problema non consisteva nella paura di inflazione, ma nella
possibilità di sfruttare economicamente una spesa così enorme che poteva far
ripartire alcuni settori produttivi stagnanti e risollevare una crisi
strutturale. Si assiste oggi agli effetti prodotti dal mercato finanziario, che
aveva assorbito investimenti non impiegabili nella produzione, dopo le bolle
speculative degli anni è ’90.
La fase di contrazione materiale che aveva trovato
sbocco, per i capitali eccedenti, nell’alta finanza (non è un caso la
generalizzata deregulation in campo
finanziario sul finire del XX scolo) esigeva l’alternativa concreta di
un’espansione produttiva. Un paio di centinaia di miliardi di dollari non sono
poca cosa. Fioccano commesse, si muove la rete economica che vi sta attorno. E
non si dimentichi che gli investimenti militari hanno sempre sorretto
l’economia statunitense non solo durante le due guerre mondiali.
L’appoggio tanto accorato (la complicità) del Regno
Unito alla guerra in Iraq va visto nella prospettiva di accordi economici e
commerciali privilegiati che dovevano seguire ad una possibile, quanto vana
come è noto, ricostruzione economica: rimuovere le macerie di un paese
distrutto frutta sempre per qualcuno altri miliardi di dollari. E l’Inghilterra
non poteva permettersi di perdere terreno in Europa.
Il petrolio, inoltre, rappresenta oltre il 50% del
consumo energetico della Terra: esso resterà ancora per parecchi anni a venire
la maggiore risorsa di energia esistente e più facilmente sfruttabile
nonostante si continui a parlare di risorse alternative. Questo ne fa il più
potente strumento di controllo economico. Il controllo dei pozzi di petrolio significa
anche controllo del prezzo del petrolio di conseguenza controllo, appunto,
dell’economia mondiale. Ma quale minaccia più spaventosa per gli Stati Uniti!
Altro che terrorismo! Se la guerra all’Iraq non fosse stato un affare le
multinazionali e le banche non sarebbero sorte contro tale follia? Il Capitale prospera con le guerre chi ci
rimette è l’altra parte del mondo: i lavoratori, i dannati del pianeta, chi
vive con meno di un dollaro al giorno. Con l’aumento del prezzo del petrolio si
può ricattare l’economia di un intero paese e chi vive nel ricatto sono i
lavoratori!
L’altra faccia della medaglia era che la guerra all’Iraq
legittimava [e ha in effetti legittimato] agli occhi di centinaia di milioni di
diseredati, poveri e sfruttati l’alternativa politica dei Bin Laden o altri aspiranti dittatori, anche una volta messo da
parte il sanguinario Saddam, che forse non ha fece più vittime delle strategie
di embargo impiegate dagli Stati Uniti e dagli ”stati servi”.
Non è tutto qui, c’è di peggio!
La teologia salvifica e la sua logica perversa, a cui
hanno anche aderito i paesi europei con la guerra “umanitaria” nella ex
Jugoslavia, sta facendo rientrare nella normalità quotidiana aberrazioni di una
convivenza (in)civile, che si ha il coraggio, la disonestà e l’indecenza di
chiamare democrazia!
Come osservava Hobsbawn 1<<(…) questo secolo ci ha insegnato, e continua a
insegnarci, che gli uomini possono imparare a vivere nelle condizioni più
brutali e teoricamente intollerabili, non è facile cogliere fino a che punto
(purtroppo in misura sempre crescente) vi sia stato un regresso verso ciò che i
nostri antenati ottocenteschi avrebbero definito barbarie>>.
Questa barbarie si chiama
disonestamente <<ordine mondiale>> e
serve a mascherare l’egemonia americana e i delitti del Capitale.
Di fronte a questa
barbarie i lavoratori debbono e possono fare qualcosa. Questo qualcosa è
riprendere la lotta di classe che oggi con la internazionalizzazione del
Capitale a maggior ragione non può non essere mondiale. Le false promesse del
benessere per tutti avevano convinto qualcuno che questo fosse veramente
l’unico mondo possibile. Oltre vent’anni
di neoliberismo hanno inasprito e aggravato il conflitto e il divario
tra nord e sud del mondo, tra centro e periferia del mondo. All’interno dello
stesso centro è cresciuto il divario economico tra le élite dominanti e la
classe lavoratrice che assiste al sistematico annullamento delle conquiste del
passato.
Lo sfacelo economico di questi ultimissimi anni sembra
aver fatto dimenticare che le strategie di conflitto sul piano mondiale vanno
ricercate nelle logiche di conservazione del capitale e delle classi dominanti
capitalistiche, e dei sui servi.
Occorre opporsi ai massacri delle guerre combattute
con gli eserciti, ma anche alle guerre del Capitale contro il lavoro. Gli
strumenti per combattere sono lo sciopero generale, le manifestazioni,
l’autorganizzazione, la lotta sui posti di lavoro. Non possiamo aspettare
ancora!
1 Già citato in
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